


Alejandro Amenábar ha il dono di suscitare polemiche a ogni uscita. L'ultimo, "El cautivo", arriva con quel timbro di scandalo servito su un piatto d'argento, ma prima di innalzare vessilli di entusiasmo o di crociata, vale la pena di fermarsi a considerare l'essenziale: il film funziona come storia di finzione - e ripeto, di finzione - ispirata a eventi reali? Sì, e comodamente.
Il film ricrea con notevole maestria l'atmosfera della prigionia ad Algeri, quel microcosmo di commerci, baratti, rinnegati e catene. Vale la pena ricordare che le tensioni religiose la facevano da padrone in tutto il Mediterraneo, con due imperi contrapposti che facevano del "Mare nostrum" la loro frontiera e vigilavano su tutte le coste; ad Algeri, però, a dettare il ritmo non erano tanto la fede o la politica, quanto il puro e semplice profitto: tutto era riscatto, attività corsara, commercio di merci rubate e ricchezza accumulata. Ecco perché il suo porto non si fermava nemmeno in tempo di tregua: mentre le cancellerie firmavano armistizi, le galee barbaresche continuavano a solcare il mare in cerca di cristiani da convertire in valuta forte. Lo spettatore respira la durezza della prigione e, allo stesso tempo, l'intensità delle dispute tra fede e apostasia. In questo scenario, Amenábar disegna un Cervantes plausibile e magnetico: il prigioniero con un braccio solo è presentato come un narratore nato, capace di trasformare la miseria in narrazione e di affascinare nemici e compagni con la forza delle sue parole. Non è un pregio da poco che, una volta uscito dal cinema, lo spettatore capisca meglio perché, anche nella sua prigionia, Cervantes era conosciuto e rispettato.
Non mancano le trovate in filigrana: l'ammiccamento alla bottega del barbiere o le ombre che preludono a Don Chisciotte e Sancio sono sottili risorse che collegano la biografia con l'immaginario letterario, ma anche la costruzione in tempo reale del romanzo del capitano prigioniero - che sarà poi inserito nel Don Chisciotte - come racconto attraverso episodi che Cervantes stesso raccontava ai suoi compagni di prigionia e in cui avrebbe raffinato letterariamente tutto ciò di cui era stato testimone. Questa trasposizione tra vita e opera è, forse, l'aspetto più riuscito della sceneggiatura: il fatto che Cervantes stesse già inventando, senza saperlo, scampoli del suo romanzo immortale mentre era alle prese con la catena e la tortura.
La questione della relazione omosessuale tra Cervantes e il suo rapitore merita un discorso a parte. Non è una novità - è stata ipotizzata fin dall'antichità - ma Amenábar la rispolvera con l'astuzia di chi sa che poche cose vendono di più che mettere il mito in situazioni carnali. Il film cerca perfino di puntellare questa presunta inclinazione in una preistoria che dovrebbe essere smentita: il duello di Cervantes con Antonio de Sigura non fu causato da calunnie contro López de Hoyos, né, tanto meno, da incomprensioni tra i due. Il motivo non è mai stato conosciuto con certezza, anche se l'ipotesi più accreditata è che si trattasse di una lotta d'onore in difesa della sorella. Lo spettatore deve saperlo, per non confondere ciò che vede sullo schermo con una fonte attendibile: sia il duello che la presunta relazione omosessuale sono variazioni sulla realtà, non note storiche. Tuttavia, nel film la questione è tangenziale, poco più di un pettegolezzo di cellula, e non deve mettere in ombra la vera chiave di lettura: mostrare come la narrazione diventi un appiglio di fronte all'oppressione. Che Cervantes e il suo maestro condividessero qualcosa di più delle parole è, nel film, più una provocazione che una tesi fondata. E anche concedendo la licenza - per quanto licenziosa - che spetta a tutti i creatori, non bisogna dimenticare che nessun incontro del genere, in quel contesto, poteva essere libero o simmetrico: il prigioniero è sempre sotto minaccia di morte, privato della sua volontà e soggetto, in ogni caso, alla legge del dominio.
Forse il punto in cui il film stona di più non è la sua suggerita inclinazione omosessuale, ma il pregiudizio ideologico che orienta lo sguardo dello spettatore nella direzione desiderata. Dalla rappresentazione di Algeri, non come il "purgatorio nella vita, l'inferno nel mondo" di cui cantava lo stesso autore, ma come una città di piaceri e libertà, in netto contrasto con una Castiglia cupa, inquisitoria e cinerea; al modo in cui viene ritratta la spiritualità di Cervantes. È qui che manca il bersaglio. Il fatto che il prigioniero mormori un "i piccoli piaceri" quando sta per essere impiccato, o che parli con il Bajá dell'assenza
Il fatto che fosse figlio del suo tempo, segnato dalla religiosità della Spagna di Filippo II, e la cui fede era, in misura maggiore o minore, il sostegno della sua stessa fede. In tutta onestà: queste righe non sarebbero mai venute da un Miguel de Cervantes che si riconosceva figlio del suo tempo, segnato dalla religiosità della Spagna di Filippo II e la cui fede era, in misura maggiore o minore, il sostegno ultimo della sua resistenza. L'accettazione di una relazione omosessuale in piena prigione può essere compresa come un espediente drammatico; attribuirle un'incredulità così moderna è, invece, un anacronismo che distorce l'essenziale. Ma non fate tremare troppo i puritani. "Il prigioniero" non ha mai voluto essere un trattato di storia o un altro volume della "Topographia", ma una fiction, un'altra delle tante che rivisitano il mito di Cervantes da un luogo o dall'altro. In questo campo, ciò che Amenábar in definitiva vuole ottenere - e ottiene - è convincerci che Cervantes è sopravvissuto in gran parte grazie al suo dono della narrazione, che la sua parola ha vinto dove il suo corpo è stato sottomesso. Chi se ne frega, quindi, del rigore storico e della scrupolosa attenzione ai dettagli di fronte a una tesi così potente. Alla fine il film, con tutti i suoi eccessi e pregiudizi, finisce per rafforzare un aspetto fondamentale, e a noi rimane: che l'uomo con un braccio solo di Lepanto, il "tal de Saavedra" era, soprattutto e sopra ogni cosa, il più libero e brillante dei narratori.