Evangelizzazione

Messico, nascita di una nazione: il sacro e la civiltà

In Messico c'è un detto molto comune: un messicano può non essere cristiano, ma è guadalupano.

Gerardo Ferrara-12 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

Rudolf Otto, grande studioso del fenomeno religioso — così come altri esperti quali Eliade, Durkheim e Voegelin — ritiene che il sacro sia l'origine stessa delle civiltà, perché dà forma allo spazio (da «káos» a «kósmos»), regola il tempo, legittima il potere politico (si pensi alla figura del sovrano sacro nelle civiltà antiche e moderne) e fonda l'etica e i simboli.

La civiltà, in pratica, nasce quando l’uomo riconosce uno spazio, un tempo e un ordine sacro.

Otto definisce il sacro come «numinoso»: un'esperienza emotiva primaria che affascina l'uomo, che lo cattura letteralmente. Mircea Eliade, sviluppando questa intuizione, aveva dimostrato che il sacro non solo si manifesta («ierofania»), ma fonda uno spazio ordinato, un mondo, separandolo proprio dal caos. E il centro di questo spazio ordinato è un «axis mundi», dove il divino irrompe aprendo una comunicazione tra il cielo, la terra e il mondo dei morti.

Spesso pensiamo che questo valga solo per le società “religiose”, ma nei nostri laicissimi Paesi occidentali vi sono degli axis mundi completamente staccati dal concetto “religioso”, eppure rivestiti di un’aura di sacralità, come l’Altare della Patria a Roma, concepito come axis mundi “laico” del nuovo Stato italiano, alternativa civile all’asse sacro rappresentato da San Pietro.

I Mexica e il loro mondo

Spesso noi europei siamo stati vittime di una mentalità da molti definita “eurocentrica”: pronta a bollare altre civiltà come barbare senza volerne approfondire e conoscere le storie e le culture. Ed effettivamente, prima della “scoperta” dell’America, il Messico precolombiano era una realtà complessa, mosaico di popoli, città-Stato, imperi e sistemi religiosi interconnessi, legati da alleanze, rivalità e reti commerciali.

I tlaxcaltechi, ad esempio, erano una confederazione nemica degli aztechi (pur avendo un sistema politico e religioso affine). C’erano poi i mixtechi e gli zapotechi; i purépecha del Michoacán, e i maya, eredi di una civiltà millenaria. Pur senza unità politica, questi popoli condividevano una medesima matrice simbolica: una visione sacra, ciclica e profondamente relazionale del cosmo.

Il più potente e avanzato di questi popoli era, all'epoca del fenomeno di Guadalupe (1531), quello comunemente noto come «azteco» (da Aztlán, la loro mitica città d'origine), ma che si definiva mexica (pronunciato «meshica»), da cui deriva il toponimo Messico.

I Mexica parlavano la lingua «nahuatl» e avevano creato un impero con capitale («axis mundi») nella famosa Tenochtitlán, fondata miticamente nel luogo indicato da un'aquila e un serpente («ierofania»). Tenochtitlán sorgeva su un'isola del lago Texcoco e era strutturata in forma sociale, gerarchica e religiosa. Al suo centro, nel Tempio Maggiore, sorgevano due santuari gemelli dedicati alle due polarità divine: Tlaloc, signore dell'acqua e della fertilità, e Huitzilopochtli, dio solare e guerriero (c'erano anche altre «divinità», come Quetzalcóatl, serpente piumato legato alla saggezza e alla creazione).

Il rapporto con il sacro era rigidamente scandito da calendari sacri, astrologia, poesia, danza rituale, architettura orientata astronomicamente.

I mexica praticavano sacrifici umani per mantenere l’equilibrio cosmico e nutrire gli dèi, soprattutto Huitzilopochtli, il Sole. Nella loro cultura, infatti, Huitzilopochtli aveva bisogno di sangue ed energia vitale per sorgere ogni giorno. Il sacrificio al dio del sole Huitzilopochtli consisteva nell’estrazione del cuore ancora pulsante in cima al Templo Mayor di Tenochtitlan. Le vittime erano spesso prigionieri di guerra, procurati mediante apposite campagne (a Tlaloc, dio della pioggia, si sacrificavano invece bambini in tempo di siccità).

Politeismo?

I popoli mesoamericani non erano politeisti in senso stretto, ma piuttosto monisti. La loro complessa cultura religiosa considerava gli dei non come figure autonome, ma come emanazioni di un'unica energia divina («teotl») che era alla base di tutto. In pratica, credevano in un unico Dio che aveva molte manifestazioni e altrettanti modi di riferirsi a lui.

Quando però parlavano della Divinità in generale, i mexica usavano solo termini come Tloque in Nahuaque, “Signore di ciò che è vicino e di ciò che è lontano”, Ipalnemohuani, “Colui per il quale si vive”, o Teyocoyani, “Colui che forma e plasma”. Questo concetto è importantissimo e la chiave per comprendere come mai il fenomeno Guadalupe attecchì tanto nell’immaginario collettivo mexica.

E nel momento in cui la Vergine di Guadalupe si definì «Nicān nicā, nicān nēcah, ichpoch in Dio, in Ipālnemohuani, in Teyōcoyani, in Tloque Nahuaque, in Ilhuicahua, in Tlalticpaque» —«Madre del vero Dio, del Dio per cui si vive (Ipalnemohuani), del Creatore degli uomini (Teyocoyani), del Signore di ciò che è vicino e di ciò che è lontano (Tloque Nahuaque)»—, gli indigeni sentirono che qualcuno parlava non solo la lingua del loro cuore e della loro terra, ma anche quella dei loro schemi concettuali.

Fu una svolta culturale decisiva, una «ierofania» che rifondò un ordine cosmico e confermò ciò che era già presente nelle intuizioni del re filosofo Nezahualcóyotl di Texcoco, ma anche nel profondo di una cultura complessa come quella mesoamericana (il famoso «Semina Verbi de Ad Gentes» 11): tra i 9 e i 10 milioni di conversioni spontanee, non forzate, dopo le apparizioni del 1531. Secoli dopo, Giovanni Paolo II avrebbe riassunto questo fenomeno definendo Guadalupe «il primo esempio di evangelizzazione perfettamente inculturata».

Per questo, in Messico, c’è un detto comune: un messicano può anche non essere cristiano, ma è guadalupano.

Questa ierofania crea infatti un nuovo centro (ma utilizzando lo stesso centro geografico e culturale, Tenochtitlan) pienamente transculturale: né solo spagnolo né solo mexica, ma messicano, facendo “dei due un popolo solo”.

Ipalnemohuani e Yahwe: diverse lingue, un unico concetto

Quando ho sentito parlare per la prima volta di Guadalupe, e soprattutto del nome Ipalnemohuani, “Colui per il quale si vive”, conoscendo l’ebraico, ho subito pensato a un parallelo: Ipalnemohuani è l’esatta traduzione dell’ebraico Yahwe, che deriva dal verbo h–y(w)–h e significa essere/vivere nella forma causativa: non solo “Io sono”, ma anche “Io faccio essere/esistere”.

Allo stesso modo, Ipalnemohuani contiene il verbo nahuatl nemohua, “vivere”, con il prefisso ipal, che indica relazione vitale, causativa: “colui per mezzo del quale si vive, che sostiene la vita e l’essere”.

Le apparizioni di Guadalupe sono dunque una rivelazione (e un disvelamento) di un significato già contenuto, sebbene in forma embrionale, nella mentalità mesoamericana, la cui lingua, il nahuatl (definito “copiosa, elegante, di grande artificio” da Fray Alonso de Molina) custodisce, come quella ebraica, un tesoro di complessità e di significati simbolici.

Lo spagnolo del Messico conserva anche tracce del nahuatl nelle forme affettive (casita, mamita) e di cortesia (ustedes), segno discreto di una lingua che «ha radici» nel nahuatl e di un fenomeno transculturale, come quello di Guadalupe, che ha creato un nuovo popolo che, a volte senza saperlo, continua ad essere neltiliztli tlacatl.

Vorrei terminare questo articolo con le parole di Nezahualcóyotl (1402-1472):

Nessuno può, quaggiù,

Nessuno può essere amico

Del datore della vita:

Lo si può solo invocare.

Ma accanto a lui,

Insieme a lui,

si può vivere sulla terra.

Chi lo trova,

può solo sapere questo: Egli è invocato,

accanto a lui, insieme a lui.

Si può vivere sulla terra.

Nessuno è davvero tuo amico,

o datore della Vita!

Solo come se tra i fiori

cercassimo qualcuno,

così ti cerchiamo,

noi che viviamo sulla terra.

mentre siamo accanto a te,

È come se Nezahualcóyotl, tempo prima di Guadalupe, avesse intuito che il vero Dio non domina, ma accompagna — “accanto a lui, insieme a lui, si può vivere sulla terra”.

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