Ecologia integrale

Matteo Visioli, sugli abusi di potere e di coscienza: “ora riconosciamo problemi che prima non vedevamo”

L'ex sottosegretario della Congregazione per la Dottrina della Fede spiega il significato di la recente riforma del Codice di Diritto Canonico per evitare abusi di potere e di coscienza.

Javier García Herrería-10 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti
Visioli

Il professor Matteo Visioli è sacerdote della diocesi di Parma e docente presso l'Università Gregoriana. Tra il 2017 e il 2022 è stato Sottosegretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. È esperto di diritto canonico e voce autorevole nel dibattito sulla giustizia e la riforma penale nella Chiesa. Recentemente, Visioli ha visitato la Spagna per partecipare al XVII Simposio Internazionale dell'Istituto Martín de Azpilcueta dal titolo “La libertà come bene giuridico nella Chiesa. I doni gerarchici e carismatici nella riflessione canonica”.

Abbiamo intervistato il professore per comprendere meglio come la recente riforma del Codice di Diritto Canonico miri a tutelare la libertà dei fedeli e a punire gli abusi di autorità. Analizzeremo cosa costituisce il reato di abuso di potere e quali sono i meccanismi penali che la Chiesa ha rafforzato per garantire che l'esercizio dell'autorità sia sempre un servizio, mai un'oppressione.

Nel 2021 la Chiesa ha modificato alcuni canoni del Libro VI del Codice di Diritto Canonico. Qual è la ragione?

—La Chiesa aggiorna le sue leggi per punire quando qualcuno esercita l’autorità limitando ingiustamente la libertà di un fedele. Tra queste norme ce n’è una particolarmente importante, una sorta di “norma generale”, che vale per tutti i casi di abuso di potere non descritti in modo specifico in altri luoghi del Codice di Diritto Canonico.

Quando si considera che l’autorità ha oltrepassato il limite?

—Quando passa da un uso prudente e ragionevole del suo potere — ciò che chiamiamo uso discrezionale — a un comportamento autoritario o arbitrario. In quel momento non si tratta più semplicemente di un cattivo esercizio, ma diventa un vero e proprio delitto canonico.

Si sanziona solo se l’autorità agisce con cattiva intenzione?

—E qui sta l’aspetto più sorprendente: no. Questo canone considera colpevole non solo chi abusa del potere deliberatamente, ma anche chi lo fa per negligenza. Cioè, anche se la persona non voleva causare un danno, ma la sua incuria o la sua cattiva gestione provoca un danno reale a un fedele o a una comunità, commette comunque un delitto.

È abituale nel diritto penale canonico?

—No, è molto eccezionale. In generale, perché ci sia un delitto in ambito canonico si richiede che la persona abbia agito con intenzione. Ma questo è uno dei pochi casi in cui la colpa, la negligenza, è sufficiente perché l’autorità sia considerata responsabile.

E come è regolato questo nel Codice?

—Con canoni molto generali. È un tema delicato e il Codice lo tratta con poche norme, ma molto ampie, proprio perché vuole comprendere tutti i possibili abusi di potere. Il problema è che un canone così generale è rischioso, perché l’autorità ecclesiastica può avere paura di sbagliare, di commettere un errore. Soprattutto quando, di fronte a una disposizione o a un atto di governo, entra in gioco una questione di coscienza. Per esempio, un superiore può nominare come responsabile di un monastero un religioso sotto la sua autorità, ma se questi afferma che ciò va contro la sua coscienza, si crea una tensione rischiosa e delicata.

Si paralizzerebbe così un’azione di governo di un’autorità legittima che potrebbe essere accusata di un delitto penale. Il problema, qui, è il passaggio da un atto amministrativo — io nomino una persona, oppure dispongo la soppressione di una parrocchia — a un atto penalmente rilevante. Questo è il rischio di una norma generale con applicazione penale.

Come si concilia il concetto di legge penale con l’esercizio della carità nella Chiesa?

—Questo “iuris puniendi”, cioè il diritto di punire, può sembrare contraddittorio rispetto all’immagine della Chiesa Madre, della Chiesa misericordiosa. Il diritto penale, in generale, deve essere letto alla luce della natura propria della Chiesa. 

La finalità delle pene è spiegata nel Codice di Diritto Canonico: la prima è il ristabilimento della giustizia,. Poi c’è la correzione del reo, infine la riparazione dello scandalo. Ciò comporta anche la riparazione del danno: se io danneggio una persona o una comunità, devo riparare quel danno.

Il diritto penale non è vendicativo, non cerca di punire per punire, ma protegge la comunità da eventuali fratture o divisioni, e aiuta a prendere coscienza del male commesso e a correggersi. La legge penale non è mai perfetta, ma offre un orizzonte di giustizia che il legislatore considera necessario per il bene della Chiesa, il bene dei fedeli, la salvezza delle anime: questa è la sua vera finalità. 

La Chiesa sta evolvendo nella sua sensibilità nel rilevare gli abusi di potere?

—Negli ultimi anni, sotto il pontificato di Papa Francesco, ci sono state molte interventi, soprattutto in ambito penale, dovuti alle emergenze create dalle accuse di abuso. Non sono fatti nuovi, sono fatti antichi, ma la consapevolezza di questi abusi è nuova, anche perché la sensibilità su questi temi è cresciuta.

È qualcosa di positivo, seppure molto doloroso. Positivo perché i tempi di oggi sono migliori di quelli di allora, nel senso che ora riconosciamo problemi che prima non vedevamo. Certo, la legge penale non può essere la risposta definitiva e unica: è uno strumento, ma la Chiesa deve lavorare soprattutto sulla formazione, sulla prevenzione e sulla formazione delle coscienze.

Cosa è cambiato concretamente nel diritto canonico?

—Il diritto penale fa la sua parte, ma non si può confidare solo in esso per risolvere tutti questi problemi. Una delle novità del recente Libro VI del 2021 — che è il libro che contiene le norme penali della Chiesa — è proprio questa: aprire la possibilità di imputare alcuni soggetti, anche laici che abbiano un ufficio, un’autorità o un potere nella Chiesa. L’intento è segnalare l’abuso che consiste nel passare dalla discrezionalità legittima di una scelta all’arbitrarietà che produce un danno.

Questo lo possono fare anche i laici, e dunque anche i laici diventano imputabili perché detengono un ufficio, un potere, una potestà. E questo, credo, è un passo avanti. Penso, ad esempio, ai moderatori di molti movimenti laicali e associazioni. Penso a coloro che esercitano uffici nella Chiesa: sotto il pontificato di Papa Francesco molti laici hanno assunto incarichi importanti di governo e, giustamente, insieme agli uffici, assumono anche la responsabilità che le loro scelte non siano arbitrarie, ma rispettose della libertà e della coscienza dei fedeli.

Come può migliorare la Chiesa per evitare gli abusi di potere e di coscienza?

—Ci sono tre antidoti all’abuso di potere. In primo luogo, la formazione della coscienza. Poi, la trasparenza: quando un’autorità prende una decisione, un antidoto perché questa decisione non sia abusiva è analizzare le reali motivazioni con trasparenza. Perché ho deciso questo? 

E il terzo antidoto è un governo più collegiale, più sinodale: l’autorità ha la responsabilità della decisione, ma, per prendere una decisione, è meglio non farlo da sola ed essere più esposta al rischio di abuso; è meglio condividerla con collaboratori o con la stessa comunità. La responsabilità è sempre dell’autorità, non diventa collegiale, ma il discernimento, la valutazione dei casi, può essere collegiale: e così si protegge di più dal rischio di abuso. 

Per saperne di più
Newsletter La Brújula Lasciateci la vostra e-mail e riceverete ogni settimana le ultime notizie curate con un punto di vista cattolico.