Cultura

La morte può essere bella

Già Socrate affermava nel Fedone che la filosofia è una preparazione alla morte. Oggi vi proponiamo la bella riflessione sulla morte preparata dalla filosofa e giornalista Rocío Montuenga, che ha recentemente difeso la sua tesi di dottorato su La fine della vita nel cinema contemporaneo. La recente morte di Papa Francesco rende la sua testimonianza di straordinaria attualità.

Rocío Montuenga / Jaime Nubiola-30 giugno 2025-Tempo di lettura: 4 minuti

Con la recente scomparsa di Papa Francesco, molti si chiedono come sia stato il suo addio: fedele al suo stile, salutando e stando vicino alla gente, come ha sempre fatto. Noi fedeli che eravamo a Roma la domenica di Pasqua abbiamo potuto vederlo da vicino, nel mio caso a soli due metri di distanza. Poche ore dopo, mentre tornavo a Barcellona, la notizia della sua morte mi ha commosso. Mi sono salite agli occhi lacrime di gratitudine e anche di dolore.

Spesso pensiamo alla morte come a qualcosa di tetro e straziante. La vediamo come un assurdo punto interrogativo, una minaccia che ci strappa il desiderio di felicità. È un punto di arrivo inevitabile, che ci incute timore perché non ha precedenti: si vive una sola volta e da soli. 

Il desiderio di amore e di eternità, iscritto nel profondo del cuore, si confronta con un tempo che svanisce. Un'esistenza che, come una candela nel buio, si spegne lentamente o bruscamente in un solo respiro.

Preparazione e morte improvvisa

La malattia terminale, per quanto dolorosa e faticosa, sembra offrire una certa logica di fronte alla morte. Se da un lato evidenzia la debolezza del corpo, della mente e dell'anima, dall'altro la sua natura progressiva è in qualche modo in linea con i nostri parametri umani. Questo processo, nonostante la desolazione che comporta, apre lo spazio per l'accettazione. Spesso culmina in un finale sereno, in cui la persona amata trova pace nella sua storia e si congeda con amore.

Sul tema della morte improvvisa, la scrittrice americana Nathalie Goldberg scrive: "La vita di ciascuno di noi è intimamente intrecciata con la vita degli altri. Ognuno di noi crea l'universo dell'altro. Quando qualcuno muore prima del tempo, siamo tutti toccati". (La gioia di scrivere. L'arte della scrittura creativa, 2023, p. 121). Tutti ricordiamo la poesia di Miguel Hernández - cantata in modo così struggente da Joan Manuel Serrat - dopo la morte dell'amico Ramón Sijé, per "che ha amato tanto":

"Uno schiaffo duro, un colpo gelido,

un'ascia invisibile e omicida, 

una spinta brutale vi ha buttato a terra. 

Non esiste una distesa più grande della mia ferita, 

Piango la mia sfortuna e i suoi ensembles 

e sento la tua morte più della mia vita".

La certezza della morte

Anche se la morte fa parte del ciclo vitale, genera impotenza. In ogni caso, sebbene viviamo in un ciclo naturale di inizio e fine, ci risulta difficile accettare una fine assoluta. Così, spesso ci comportiamo come se la morte non ci sfidasse, come se fossimo immortali. Siamo riluttanti ad accettare la malattia e la fine, perché mettono in dialettica il nostro desiderio di eternità e la nostra condizione di fragilità. La morte, quindi, ci mette di fronte alla vulnerabilità, ma ci ricorda anche che fa parte della vita. E, soprattutto, ci invita ad aprirci al mistero: a mettere a tacere la ragione e a guardare la sofferenza da una prospettiva diversa: dal cuore.

La morte è infatti l'ultimo tratto che ognuno di noi deve percorrere per concludere la propria storia. E anche se in questo secolo viviamo voltandole le spalle, fuggendo a tutti i costi attraverso piccole o grandi evasioni, o semplicemente cercando di non nominarla mai, sappiamo che prima o poi arriverà: questa è l'unica verità di cui siamo certi. Come scrive la psicoterapeuta francese Marie De Hennezel: "So che un giorno dovrò morire, anche se non so come o quando. C'è un angolo di me che conosce questa verità. So che un giorno dovrò dire addio ai miei cari, a meno che non siano loro ad andarsene per primi. Questa certezza, la più intima e profonda che possiedo, è paradossalmente ciò che ho in comune con tutti gli altri esseri umani". (Morte intima, 1996, p. 13).

Certo, questa realtà può generare tristezza, dolore e disagio, sia quando pensiamo alla nostra morte sia quando perdiamo una persona cara. Tuttavia, può anche contenere una profonda bellezza. Quando ci avviciniamo ad essa, ci inscrive in un nuovo ordine: l'effimero diventa essenziale, e le leggi del tempo e dello spazio cessano di essere semplici limitazioni e ci guidano in un interstizio sacro. È la stagione dell'addio, dell'abbraccio, del silenzio, un tempo che ci mette in contatto con l'ineffabile. In questo senso, la morte può essere il luogo della bellezza, il rifugio di carezze e consolazioni che riempiono ogni secondo in preparazione dell'ultimo. Essere e stare con la persona che se ne va; accompagnarla con sguardi eloquenti e parole tenere. La morte ci invita a riflettere su ciò che è importante, a perdonare, ad aprirci alla trascendenza, ad amare Dio e gli altri.

La bellezza

La vita umana, fragile e bella come un vaso di porcellana, si incrina con il passare del tempo, segnata dal dolore, dalla perdita e, infine, dalla morte. Ma lungi dallo sminuirne il valore, queste crepe parlano di un'esistenza vissuta con intensità, con amore, con dedizione. Come in kintsugiDove l'oro non nasconde le fratture ma le trasforma in arte, le nostre ferite possono essere il luogo in cui il vero risplende di più. La morte, quindi, non è semplicemente la fine, ma l'ultima linea d'oro che unisce tutti i frammenti di una storia, dandole forma, profondità e bellezza. Ed è l'amore - nel perdono, nella tenerezza, nell'addio, nel semplice atto di esserci - l'oro che dà senso a ogni rottura, anche l'ultima.

In questo modo, la morte non annienta la bellezza della vita, ma la incorona, rivelando nelle sue crepe la bellezza dell'amore che plasma l'esistenza umana.

L'autoreRocío Montuenga / Jaime Nubiola

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