Qualche giorno ho visto il film “Maria”, diretto da Pablo Larraín e interpretato da Angelina Jolie, incentrato sugli ultimi giorni della vita di Maria Callas: un ritratto intimistico della triste e solitaria fine di uno dei personaggi più iconici e talentuosi del XX secolo, una donna grandissima, “divina”, come veniva chiamata, che si aggrappa ai ricordi e ricerca, senza più trovarla, quell’immensità che l’ha resa la voce lirica più nota di tutti i tempi.
Tra New York, Atene e l’Italia
Nel film di Larraín non mancano i richiami a episodi precisi della vita dell’artista, nata a New York il 2 dicembre 1923, seconda figlia di genitori greci emigrati. La famiglia trascorse i primi anni nel Queens, per poi trasferirsi a Manhattan. Frequenti erano i dissapori tra il padre di Callas e sua madre, sempre dura e dispotica nei confronti della figlia minore.
Con la madre e la sorella, Maria tornò in Grecia a 13 anni e al Conservatorio di Atene cominciò seriamente la formazione musicale, studiando canto con il grande soprano spagnolo Elvira de Hidalgo. Già da giovane, la sua voce si distingueva per potenza, estensione e colore, capace di passare con naturalezza dal registro drammatico a quello lirico o leggero.
Ebbe l’occasione, durante l’occupazione nazista, di esibirsi diverse volte in Grecia, tornando però dal padre, a New York, per cercare scritture, prima di giungere in Italia, dove la sua carriera poté finalmente decollare, con il debutto decisivo all’Arena di Verona nel 1947, sotto la direzione di Tullio Serafin, che diverrà uno dei suoi mentori.
Nel frattempo, incontrò l’uomo che fu suo manager e poi marito, l’imprenditore melomane veronese Giovanni Battista Meneghini, di molti anni più grande.
Memorabile anche il debutto al Maggio Fiorentino, per poi arrivare alla Fenice di Venezia, al San Carlo di Napoli, e soprattutto alla Scala di Milano, dove divenne regina indiscussa (celebre la rivalità con l’italiana Renata Tebaldi, che per sfuggirvi scelse di lasciare l’Italia e stabilirsi a New York).
Maria Callas, la diva
Negli anni ’50, all’apice della carriera, fu protagonista di opere come Norma e La Sonnambula (Bellini), Tosca (Puccini), Lucia di Lammermoor (Donizetti) La Traviata (Verdi), in molti casi riportando nel repertorio della Scala e di altri teatri capolavori non più rappresentati per l’assenza di interpreti capaci di valorizzarne la tecnica vocale e la drammaticità. In questo, infatti, Callas era addirittura camaleontica: in grado di affrontare un repertorio vastissimo, da Bellini a Verdi, da Puccini a Wagner, con un poderoso strumento vocale unito a un’inarrivabile presenza scenica e capacità interpretativa.
Fu camaleontica anche per la trasformazione fisica nel corso della carriera, che la portò a perdere 36 kg e ad avere la figura leggiadra ed eterea con cui è ricordata anche nel mondo della moda: perse circa 36 kg (dai 90 iniziali passò ai 54) in un periodo relativamente breve, divenendo un’icona di stile.
Callas e Onassis
Nel 1957, quando iniziava per lei un periodo di difficoltà per i cali di voce e lo stress accumulato, avvenne l’incontro destinato a cambiare per sempre la sua vita e la sua carriera. Invitata sullo yacht di un altro celebre greco, il magnate Aristotele Onassis, partecipò con il marito a una crociera insieme ad altre personalità di spicco, tra cui Winston Churchill e la stessa moglie di Onassis.
Da lì, non fu solo Callas, ma Callas & Onassis: tra i due si sviluppò una relazione tormentata, sempre al centro delle cronache mondane, che spinse la cantante a lasciare il marito, e a trascurare la carriera, per Onassis, con cui rimase fino al 1968, quando lui la abbandonò per sposare (per interesse) Jacqueline Kennedy. Maria venne a saperlo dai giornali e ne fu devastata.
Gli ultimi anni
Nel frattempo, la sua carriera sfiorì, come la sua voce e la sua felicità: poche le apparizioni pubbliche (l’ultima, memorabile Tosca con la regia di Franco Zeffirelli, a Londra, nel 1964; un film con Pasolini, Medea, nel 1969; una master class a New York tra il ’71 e il ’72; un’ultima, problematica tournée mondiale con il tenore Giuseppe Di Stefano, di cui pure si era innamorata, nel 1973-74).
Seguì un periodo d’isolamento, chiusa nel suo appartamento di Avenue Georges Mandel a Parigi, in compagnia unicamente dei suoi cani e dei suoi domestici e ben documentato nel film di Larraín. La Callas morì di crepacuore, ancor più sola di eroine che aveva interpretato, come Violetta Valéry, Tosca, Mimì, nel 1977, a 53 anni, ufficialmente per un infarto, ma in molti parlarono di un lento e consapevole spegnersi, di un cuore spezzato. Oggi si sa che, oltre alla sua infelicità, a provocarne la morte fu l’aterosclerosi, una malattia degenerativa delle arterie che provoca danni anche alle corde vocali e che colpirà, e accelererà la fine, di un’altra grandissima voce del XX secolo: Whitney Houston.
L’opera e l’eredità
L’opera è una forma d’arte completa: unisce musica, canto, teatro e scenografia per raccontare emozioni e storie universali. Nata in Italia alla fine del Cinquecento, dell’Italia è uno degli elementi culturali più tipici.
Purtroppo è oggi in declino, ma ricordo che, da piccolo, era molto comune che fosse trasmessa alla radio o in televisione e che tantissime persone, di ogni provenienza culturale e sociale, sognassero affascinate dalla musica di Verdi, Rossini, Puccini e tanti altri, anzi, praticamente ogni famiglia aveva il suo cantante d’opera improvvisato, dotato di una voce particolarmente bella, che rallegrava una cena o una festa di paese con qualche celebre aria.
È in questo contesto, segnato dal dopoguerra e dal successivo boom economico, che l’arte di Maria Callas trovò un humus così favorevole. Gli italiani, e non solo, la veneravano e, tra gli estimatori dell’opera, o la si amava o la si odiava: aveva infatti una voce non proprio perfetta per gli standard operistici, scura nei toni più bassi ma capace di arrivare ai sovracuti di soprani leggeri. La Callas aveva poi una presenza scenica e una capacità di “recitare con la voce” che imprimevano ai suoi personaggi una vitalità inaudita.
Era anche una grandissima professionista: provava ore e ore, mai soddisfatta, ma il risultato finale era qualcosa che mandava il pubblico in visibilio.
Chi, come me, non ha avuto la possibilità di ascoltarla dal vivo, ne apprezza le registrazioni in video (o i tantissimi dischi e le interpretazioni di intere opere o i concerti), tra cui quella di un famoso concerto a Parigi, del 1958, in cui interpreta “Una voce poco fa” dal Barbiere di Siviglia, di Rossini.
Rosina, la protagonista, è una ragazza dolce e all’apparenza fragile, ma molto determinata, e infatti canta: “Io sono docile, son rispettosa; sono obbediente, dolce e amorosa. Ma se mi toccano dov’è il mio debole sarò una vipera e cento trappole farò giocar”. Callas, restando ferma nella sua posizione, riesce a muovere solamente occhi e mani nel dar vita a un personaggio, consapevole. Lei stessa dichiarò che un movimento di troppo a teatro rischia di compromettere l’intera rappresentazione e che bisogna saper dosare l’uso delle mani, badando di rimanere sempre fedeli alla storia e alla partitura come pensata dal compositore.
Maria Callas, il successo e la solitudine
Come disse di lei Montserrat Caballé, grande soprano spagnolo che venerava la Callas e ne era a sua volta ammirata, Maria “come solo compagno aveva il successo… E quando questo successo si eclissò, lei rimase da sola”.
E proprio la Caballé fu l’opposto della Callas, da certi punti di vista, perché seppe trovare il giusto equilibrio tra arte, maternità, matrimonio, lavoro. Ciò la aiutò, paradossalmente, ad avere una carriera molto, ma molto più duratura di quella di Callas, che pure avrebbe sognato essere moglie e madre (si dice sia rimasta incinta di Onassis all’inizio degli anni ’60 senza riuscire a portare a termine la gravidanza).
Maria Callas fu una grande donna e una grandissima artista, divina, che però sognava di essere una moglie e una madre. Non le fu dato di essere tutto ciò che voleva, ma forse possiamo azzardare che la sua è una maternità che ha generato tanti figli artistici e tante persone che oggi, a quasi 50 anni dalla sua morte, la amano ancora.
La immagino ancora lì, a salutarci, con le parole di una famosa aria di Catalani: "Ebben, ne andrò lontana, come va l’eco della pia campana".