Per “canone biblico” s’intendono quei libri riconosciuti come testi sacri da parte della Chiesa. Il termine deriva dal greco κανών (kanon, “canna”, o “bastone diritto”) e indicava dapprima un’unità di misura, poi per estensione passò a definire un catalogo ufficiale, un modello.
Perché nel canone neotestamentario della Chiesa ci sono proprio quei libri?
Già nel II secolo d.C., specie in risposta a Marcione, che voleva escludere dal canone cristiano l’Antico Testamento e tutte quelle parti del nuovo che non fossero in linea con i suoi insegnamenti (per lui il Dio dei cristiani non andava identificato con quello degli ebrei), Giustino (140) ed Ireneo di Lione (180), seguiti poi da Origene, ribadirono che i Vangeli canonici, universalmente accettati da tutte le Chiese, dovevano essere quattro. Ciò venne confermato all’interno del Canone Muratoriano (antico elenco dei libri del Nuovo Testamento, risalente al 170 circa!).
Per stabilire la “canonicità” dei quattro Vangeli furono seguiti dei criteri ben precisi:
- Antichità delle fonti. Come abbiamo visto, i quattro Vangeli canonici, risalenti al I secolo d.C., sono tra le fonti più antiche e meglio attestate per numero dei manoscritti o codici (circa 24 mila, tra greco, latino, armeno, copto, slavo antico, ecc.), più di qualunque altro documento storico.
- Apostolicità. Gli scritti, per essere “canonici”, dovevano poter risalire agli Apostoli o a loro discepoli diretti. Tra l’altro, il termine “secondo”, anteposto al nome dell’evangelista (secondo Matteo, Marco, ecc.) indica che i quattro Vangeli fanno un unico discorso su Gesù ma in quattro forme complementari, in base alla predicazione dei singoli apostoli da cui derivano: Pietro per il Vangelo secondo Marco; Matteo (e probabilmente Marco) per quello secondo Matteo; Paolo (e, come abbiamo visto nel precedente articolo, anche Marco e Matteo) per quello secondo Luca; Giovanni per il Vangelo che porta il suo nome. In pratica, non è tanto il singolo evangelista a scrivere il singolo Vangelo, quanto la comunità, o la Chiesa nata dalla predicazione di un apostolo.
- La cattolicità o universalità dell’uso dei Vangeli: dovevano essere accettati da tutte le Chiese principali (“cattolico” significa “universale”), cioè Roma, Alessandria, Antiochia, Corinto, Gerusalemme, e dalle altre comunità dei primi secoli.
- L’ortodossia o retta fede.
- La molteplicità delle fonti e le numerose e comprovate testimonianze in favore dei Vangeli canonici (e qui torniamo a citare, ad esempio, Papia di Gerapoli, Eusebio di Cesarea, Ireneo di Lione, Clemente d’Alessandria, Panteno, Origene, Tertulliano, ecc.).
- La plausibilità esplicativa, cioè la comprensibilità del testo secondo una coerenza di causa ed effetto.
Criteri di storicità dei Vangeli
Oltre alle testimonianze più antiche dei Padri della Chiesa e ai criteri utilizzati già nel II secolo d.C. (ad es. per il Canone Muratoriano), si sono sviluppati, specie in epoca contemporanea, ulteriori metodi che consentono di confermare i dati storici di cui già siamo in possesso sulla figura di Gesù di Nazareth e sui Vangeli.
Réné Latourelle (1918-2017), teologo cattolico canadese, ha individuato dei criteri per attestare la storicità dei Vangeli:
- Attestazione molteplice: è autentico un dato confermato da più fonti evangeliche (per es. la vicinanza di Gesù ai peccatori).
- Discontinuità: è autentico un dato non riconducibile ai concetti del giudaismo e della Chiesa primitiva, come l’uso di abba (“papà”) per Dio (la parola “padre”, intesa nel senso di figliolanza intima e personale nei confronti di Dio, compare 170 volte nel Nuovo Testamento, di cui 109 solamente nel Vangelo di Giovanni, eppure unicamente 15 volte nell’Antico, ma sempre con il significato di paternità collettiva, “nazionale” di Dio rispetto al popolo ebraico.
- Conformità: è autentico ciò che è coerente, conforme rispetto all’ambiente di Gesù e al suo insegnamento (per es. parabole e beatitudini).
- Spiegazione necessaria: per es., la personalità “mastodontica” di Gesù chiarisce tutta una serie di eventi e comportamenti altrimenti incomprensibili (la sua forza, l’autorità, il carisma esercitato sulle folle, ecc.).
- Stile di Gesù: che unisce maestà e umiltà, bontà e coerenza assoluta, senza ipocrisia e senza contraddizioni.
Vi sono anche altri criteri, più specificamente letterari e redazionali:
- Studio delle forme letterarie (Formgeschichte), basato sull’analisi letteraria dei Vangeli, per determinare il “Sitz im leben”, cioè la vita della comunità in cui sono nati, per “incarnare” l’esistenza di Gesù in un contesto vivo e particolare.
- Studio delle tradizioni scritte e orali (Traditiongeschichte) preesistenti ai Vangeli, per confrontarle con questi.
- Studio dei criteri redazionali degli evangelisti (Redaktiongeschichte), che esamina come ogni evangelista abbia raccolto dei dati per poi metterli per iscritto, organizzandoli in base a esigenze particolari, come la predicazione a una determinata comunità.
Semitismi e analisi filologica
Nei primi secoli dell’era cristiana era noto che almeno due Vangeli canonici fossero stati scritti in una lingua semitica (ebraico o aramaico). Tuttavia, fino a Erasmo da Rotterdam (1518), si perse memoria di questo strato più antico, “nascosto” sotto la lingua greca in cui i testi ci sono pervenuti. Gli studi filologici moderni hanno poi consentito di ricostruire le tracce della loro struttura semitica originaria.
Queste tracce, definite “semitismi”, sono di varia natura (prestiti, sintassi, stile, vocabolario, ecc.). Jean Carmignac, grazie ai suoi studi sul linguaggio di Qumran e sulle opere dei maestri ebrei dell’epoca detta inter-testamentaria, è giunto alla conclusione che i Vangeli sinottici, in particolare Marco e Matteo, debbano essere stati scritti prima in ebraico (non in aramaico) e poi tradotti in greco. Ritraducendo il testo greco in ebraico, emergono infatti assonanze, rime e strutture poetiche assenti nella prosa greca.
Ciò consentirebbe di anticipare la datazione dei Vangeli di almeno due decenni, avvicinandoli ulteriormente ai fatti narrati e ai testimoni diretti. Inoltre, inserisce Gesù (e su questo insistono anche studiosi come John W. Wenham o vari esperti ebrei israeliani, tra cui David Flusser) in un contesto più armonico con l’ambiente ebraico del tempo, come confermato dai manoscritti di Qumran.
Vediamo un paio di esempi di semitismi.
Quando leggiamo nei Vangeli che Gesù aveva dei fratelli, il termine “fratello”, il greco αδελφός (adelphós) traduce l’ebraico e aramaico אָח (aḥ), con cui però, nell’accezione semitica, non s’intendono soltanto i fratelli “germani”, bensì anche quelli “unilaterali”, i cugini, i parenti in generale, i membri di uno stesso clan, tribù o popolo. Neppure in ebraico moderno esiste un termine per definire un cugino: lo si chiama semplicemente “figlio dello zio”.
O ancora (Matteo 3, 9): Io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare veri figli ad Abramo
Greco: λέγω γὰρ ὑμῖν ὅτι δύναται ὁ θεὸς ἐκ τῶν λίθων τούτων ἐγεῖραι τέκνα τῷ Ἀβραάμ Lego gar hymìn oti dynatai o Theos ek ton lithon touton egeirai tekna to Abraam.
Ebraico (una delle possibili traduzioni): אלוהים יכול לעשות מן האבנים האלה בנים לאברהםElohìm yakhòlabanìm ha-‘ele banìm banìm le-Avrahàm
Come si può notare, solo nella versione ebraica vi è assonanza tra il termine “figli” (banìm) e il termine pietre (abanìm). Non solo: questo gioco di parole che fanno rima tra loro rientra perfettamente nella tecnica di trasmissione degli insegnamenti basata su assonanze, allitterazioni, parabole, ossimori e contrapposizioni (il famoso cammello che passa per la cruna di un ago) usata dai Tannaìm per far memorizzare le loro massime.
L’esempio appena riportato può essere presente anche in aramaico (“pietre”: ‘ebnaya; “figli”: banaya), ma tantissimi lo sono solamente in ebraico.