Vaticano

Le finanze vaticane, i bilanci dello IOR e dell'Obbligo di San Pietro

Esiste un legame intrinseco tra i bilanci degli Oblati di San Pietro e l'Istituto per le opere di religione.

Andrea Gagliarducci-12 luglio 2024-Tempo di lettura: 4 minuti

Esiste una stretta relazione tra la dichiarazione annuale della Obolo di San Pietro e il bilancio dell'Istituto delle Opere di Religione, la cosiddetta "banca vaticana". Perché l'obolo è destinato alla carità del Papa, ma questa carità si esprime anche nel sostegno alla struttura della Curia romana, un immenso "bilancio missionario" che ha spese ma non tante entrate, e che deve continuare a pagare gli stipendi. E perché lo IOR, da qualche tempo, contribuisce volontariamente con i suoi utili proprio al Papa, e questi utili servono ad alleggerire il bilancio della Santa Sede. 

Da anni lo IOR non ha più gli stessi profitti del passato, per cui la quota destinata al Papa è diminuita nel corso degli anni. La stessa situazione vale per l'Obolo, le cui entrate sono diminuite nel corso degli anni e che ha dovuto affrontare anche questa diminuzione del sostegno dello IOR. Tanto che nel 2022 ha dovuto raddoppiare le sue entrate con una generale dismissione di beni.

Ecco perché i due bilanci, pubblicati il mese scorso, sono in qualche modo collegati. Dopo tutto, il Le finanze del Vaticano sono sempre stati collegati e tutto contribuisce ad aiutare la missione del Papa. 

Ma analizziamo i due bilanci più in dettaglio.

Il globo di San Pietro

Lo scorso 29 giugno gli Oblati di San Pietro hanno presentato il loro bilancio annuale. Le entrate sono state di 52 milioni, ma le spese sono state di 103,4 milioni, di cui 90 milioni per la missione apostolica del Santo Padre. Nella missione sono incluse le spese della Curia, che ammontano a 370,4 milioni. L'Obbligo contribuisce quindi con 24% al bilancio della Curia. 

Solo 13 milioni sono andati in beneficenza, a cui però vanno aggiunte le donazioni di Papa Francesco attraverso altri dicasteri della Santa Sede per un totale di 32 milioni, di cui 8 in beneficenza. finanziato direttamente dall'Obolo.

In sintesi, tra il Fondo Obolo e i fondi dei dicasteri parzialmente finanziati dall'Obolo, la carità del Papa ha finanziato 236 progetti, per un totale di 45 milioni. Tuttavia, il bilancio merita alcune osservazioni.

È questo il vero uso dell'Obbligo di San Pietro, che spesso viene associato alla carità del Papa? Sì, perché lo scopo stesso dell'Obbligo è quello di sostenere la missione della Chiesa, ed è stato definito in termini moderni nel 1870, dopo che la Santa Sede ha perso lo Stato Pontificio e non aveva più entrate per far funzionare la macchina.

Detto questo, è interessante che il bilancio degli Oblati possa essere dedotto anche dal bilancio della Curia. Dei 370,4 milioni di fondi preventivati, il 38,9% è destinato alle Chiese locali in difficoltà e in contesti specifici di evangelizzazione, per un totale di 144,2 milioni.

I fondi per il culto e l'evangelizzazione ammontano a 48,4 milioni, pari al 13,1%.

La diffusione del messaggio, cioè l'intero settore della comunicazione vaticana, rappresenta il 12,1% del bilancio, con un totale di 44,8 milioni.

37 milioni di euro (10,9% del bilancio) sono andati a sostegno delle nunziature apostoliche, mentre 31,9 milioni (8,6% del totale) sono stati destinati al servizio della carità - proprio i soldi donati da Papa Francesco attraverso i dicasteri -, 20,3 milioni all'organizzazione della vita ecclesiale, 17,4 milioni al patrimonio storico, 10,2 milioni alle istituzioni accademiche, 6,8 milioni allo sviluppo umano, 4,2 milioni a Educazione, Scienza e Cultura e 5,2 milioni a Vita e Famiglia.

Le entrate, come già detto, ammontano a 52 milioni di euro, di cui 48,4 milioni di euro sono donazioni. L'anno scorso le donazioni sono diminuite (43,5 milioni di euro), ma le entrate, grazie alla vendita di immobili, sono state pari a 107 milioni di euro. È interessante notare che ci sono 3,6 milioni di euro di entrate derivanti da rendite finanziarie.

In termini di donazioni, 31,2 milioni provengono dalla raccolta diretta delle diocesi, 21 milioni da donatori privati, 13,9 milioni da fondazioni e 1,2 milioni da ordini religiosi.

I principali Paesi donatori sono gli Stati Uniti (13,6 milioni), l'Italia (3,1 milioni), il Brasile (1,9 milioni), la Germania e la Corea del Sud (1,3 milioni), la Francia (1,6 milioni), il Messico e l'Irlanda (0,9 milioni), la Repubblica Ceca e la Spagna (0,8 milioni).

Il bilancio dello IOR

Il IOR 13 milioni di euro alla Santa Sede, a fronte di un utile netto di 30,6 milioni di euro.

I profitti rappresentano un miglioramento significativo rispetto ai 29,6 milioni di euro del 2022. Tuttavia, le cifre vanno confrontate: si va dagli 86,6 milioni di utili dichiarati nel 2012 - che quadruplicano quelli dell'anno precedente - ai 66,9 milioni del rapporto 2013, ai 69,3 milioni del rapporto 2014, ai 16,1 milioni del rapporto 2015, ai 33 milioni del rapporto 2016 e ai 31,9 milioni del rapporto 2017, fino ai 17,5 milioni del 2018.

Il rapporto 2019, invece, quantifica i profitti in 38 milioni, anch'essi attribuiti al mercato favorevole.

Nel 2020, anno della crisi del COVID, l'utile è stato leggermente inferiore, pari a 36,4 milioni.

Ma nel primo anno post-pandemia, un 2021 non ancora influenzato dalla guerra in Ucraina, il trend è tornato negativo, con un profitto di soli 18,1 milioni di euro, e solo nel 2022 si è tornati alla barriera dei 30 milioni.

Il rapporto IOR 2023 parla di 107 dipendenti e 12.361 clienti, ma anche di un aumento dei depositi della clientela: +4% a 5,4 miliardi di euro. Il numero di clienti continua a diminuire (12.759 nel 2022, addirittura 14.519 nel 2021), ma questa volta diminuisce anche il numero di dipendenti: 117 nel 2022, 107 nel 2023.

Continua quindi il trend negativo della clientela, che deve far riflettere, considerando che lo screening dei conti ritenuti non compatibili con la missione dello IOR è stato completato da tempo.

Ora, anche lo IOR è chiamato a partecipare alla riforma delle finanze vaticane voluta da Papa Francesco. 

Jean-Baptiste de Franssu, presidente del Consiglio di Sovrintendenza, sottolinea nella sua lettera di gestione i numerosi riconoscimenti che lo IOR ha ricevuto per il suo lavoro a favore della trasparenza nell'ultimo decennio, e annuncia: "L'Istituto, sotto la supervisione dell'Autorità di Vigilanza e Informazione Finanziaria (ASIF), è quindi pronto a fare la sua parte nel processo di centralizzazione di tutti i beni vaticani, in conformità con le istruzioni del Santo Padre e tenendo conto degli ultimi sviluppi normativi.

Il team dello IOR è desideroso di collaborare con tutti i dicasteri vaticani, con l'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA) e di lavorare con il Comitato per gli Investimenti per sviluppare ulteriormente i principi etici del FCI (Faith Consistent Investment) in accordo con la dottrina sociale della Chiesa. È fondamentale che il Vaticano sia visto come un punto di riferimento".

L'autoreAndrea Gagliarducci

Elenco degli obiettori di coscienza o elenco dei segnalati di coscienza?

La creazione di un registro dei medici che si oppongono alla pratica dell'aborto riapre il dibattito sui limiti dello Stato e solleva la questione se questa misura violi la libertà di coscienza e l'autonomia professionale.

17 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Quelli di noi che hanno ricevuto la lettera che ci chiamava al servizio militare obbligatorio (la Mili) sanno perfettamente cosa sia l'obiezione di coscienza. Era un modo per difendere i nostri principi più profondi e non essere costretti a sparare con un CETME a un possibile nemico, che non conoscevi e che non ti aveva fatto nulla. Era un modo concreto per poter esercitare la propria etica personale, plasmata dalle proprie esperienze e convinzioni. Questo “pacifismo legittimo», in un certo senso, finì per essere un modo per evitare il servizio militare, attraverso la Prestazione Sociale Sostitutiva, che comportava l'adempimento del dovere civico di ogni cittadino, attraverso la pratica di qualsiasi servizio alla società fosse necessario.

Nel 2016 è uscito «Hacksaw Ridge”, film vincitore di un Oscar e di molti altri premi, diretto da Mel Gibson, che ci ha permesso di comprendere meglio cosa fosse un obiettore di coscienza in guerra. Basato su fatti reali, racconta la storia vera del soldato Desmond Doss, che per le sue convinzioni religiose non vuole esercitare violenza e sparare al nemico. Questa posizione così rivoluzionaria, insolita nella società americana, ha richiesto tempo per essere compresa. Ma questo soldato è stato insignito della Medaglia d'Onore dal presidente Harry S. Truman nella vita reale, dopo aver subito derisioni e umiliazioni per aver difeso i propri principi. Ma l'obiezione di coscienza non si limita solo al settore militare, ma si estende a tutti i luoghi in cui possiamo agire attraverso una decisione morale che nasce dalla nostra coscienza.

Questo diritto è tornato alla ribalta nel settore sanitario, vista la situazione in cui molti medici del sistema sanitario pubblico non vogliono praticare aborti. Recentemente il Ministero della Salute ha approvato il “protocollo per la creazione del registro delle persone obiettrici di coscienza all'interruzione volontaria di gravidanza”, con l'intenzione di reclutare medici per eseguire questo intervento nel sistema pubblico, attraverso un elenco obbligatorio di medici obiettori di coscienza. Ayuso ha deciso di non redigere questo elenco a Madrid e di non inviarlo, il che ha comportato l'avvio di un contenzioso amministrativo che il ministero avvierà, come annunciato da Mónica García, contro la Comunità di Madrid. A prescindere dalla norma e dalla polemica, andando al fondo della questione ci si deve porre diverse domande: perché è necessario creare un registro degli obiettori, se l'aborto è libero e reale in Spagna e nel 2024 ne sono stati effettuati 106.172? Perché si vuole obbligare i medici obiettori a registrarsi e non quelli che vogliono abortire, come nel caso dei medici che vogliono praticare l'eutanasia? Non si possono incentivare questi medici, se c'è così tanto interesse? 

Il 78,74% delle interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) in Spagna sono state effettuate in centri privati (con fondi pubblici), perché non ci sono abbastanza medici nel sistema pubblico disposti a praticarle. E questo non è visto di buon occhio, perché si vorrebbe che fossero i medici del sistema pubblico a praticarle. Ma questo non deve significare che si debba limitare la libertà di chi si oppone. Al contrario, segnalare il medico che non vuole trovarsi nella situazione di eseguire questo violento intervento ostetrico, tramite una lista, non è come segnalare i “traditori” del sistema che il ministero vuole imporre, come se fossero ebrei segnalati nella persecuzione nazista, quando i vicini di un quartiere segnalavano con una stella di David l'abitazione dei semiti che volevano denunciare? Anche se non si tratta di un dato pubblico, politicamente all'interno del ministero è possibile utilizzare i dati.

L'aborto non è certo una scelta “piacevole” per la donna che si trova in questa difficile situazione, ma non lo è nemmeno per il medico che deve praticarlo. Proprio come la paziente è libera di prendere la decisione che desidera, anche il medico deve avere la stessa possibilità. Forse con più motivo nel suo caso, per il Giuramento di Ippocrate, poiché è il modo concreto di agire in coscienza e con professionalità, senza subire coercizioni, esercitando il diritto di non violare se stesso in una situazione così delicata.

L'autoreÁlvaro Gil Ruiz

Professore e collaboratore regolare di Vozpópuli.

Famiglia

Fondazione FASE: pionieri nella mediazione familiare riparativa

Alberto San Juan spiega il lavoro di una fondazione che da mezzo secolo si occupa di programmi di sostegno alle famiglie, anche nell'ambito dell'azione politica.

Jose Maria Navalpotro-17 dicembre 2025-Tempo di lettura: 8 minuti

Le rotture familiari non devono necessariamente essere irreversibili ed è possibile lottare, anche a livello istituzionale, per ricostruire ciò che è andato perduto. Questa è una delle linee di lavoro della Fondazione FASE, che il prossimo anno festeggerà il suo cinquantesimo anniversario di attività incentrata sulla famiglia. Il suo direttore generale, Alberto San Juan, riceve Omnes nella sua sede centrale di Madrid, che solitamente ospita le sessioni e le conferenze della fondazione e, dal mese di gennaio, il suo nuovo corso di mediazione familiare. 

San Juan, con una vasta esperienza politica, ha ricoperto, tra gli altri, la carica di Direttore Generale per l'Infanzia nella Comunità di Madrid. Politico sensato, sa bene di cosa parla, poiché ha alle spalle una vasta esperienza nei servizi sociali.

Di cosa si occupa la fondazione?

—Il nostro obiettivo è accompagnare la famiglia. E questo accompagnamento si concretizza nella risoluzione dei conflitti, nelle difficoltà che la famiglia attraversa. In realtà, molte volte le difficoltà della famiglia derivano dal fatto che non si sa come affrontare le cose. Non si sa come affrontare la risoluzione dei conflitti, la vulnerabilità... FASE è lì per aiutare. Spesso, con un corso di formazione o un certo accompagnamento, quella famiglia è in grado di andare avanti. Abbiamo molta esperienza in materia di famiglia. L'anno prossimo festeggeremo i nostri cinquant'anni.

In vista di questo importante anniversario, i cinquant'anni, cosa avete in programma?

—Abbiamo tre progetti concreti. Il più innovativo forse è quello di avviare un corso di mediazione familiare riparativa. Poi, il libro che abbiamo appena pubblicato, Leadership nelle politiche familiari. In terzo luogo, un programma specifico sulla salute mentale, Necesito Terapia. Uno dei grandi problemi che affliggono le famiglie è quello delle terapie e della salute mentale.

In cosa consiste Ho bisogno di terapia?

—Si tratta di un programma, gestito da professionisti della psicologia e della psichiatria formati dal dottor Carlos Chiclana, che mira ad aiutare le famiglie attraverso terapie di salute mentale. Abbiamo riscontrato che, di fronte a questo enorme problema di salute mentale, esistono enormi difficoltà legate alle liste d'attesa. Ma salute mentale e liste d'attesa sono una combinazione molto pericolosa, perché le persone hanno bisogno di fare terapia nel momento in cui ne hanno bisogno. Hanno bisogno di essere curate subito. 

Cosa fanno?

—Da un lato, riusciamo a ridurre al massimo i tempi di attesa e offriamo una terapia accessibile a tutti. Perché a tutti? Perché è una terapia per persone vulnerabili.

La vulnerabilità non si riferisce solo a motivi economici, ma deriva da mille circostanze. Ad esempio, una famiglia numerosa con otto figli, o quanti siano, che non è povera (non ha una vulnerabilità economica). Ma se quella terapia le costasse 100 euro, ad esempio, probabilmente rinuncerebbe. Si tratta di una terapia a prezzo ridotto e applicata con immediatezza, quando è necessaria. 

Quali sono i problemi più frequenti in questo ambito? 

Dipende dall'età. Con i giovani abbiamo sfide molto preoccupanti, ma soprattutto i problemi legati al suicidio sono impressionanti. I dati sono spaventosi. Circa 10-15 persone si suicidano ogni giorno, tra cui molti giovani. È una morte molto evitabile e molto dolorosa per le circostanze.

Ci sono anche problemi di anoressia, bulimia, maltrattamenti, bullismo a scuola, dipendenze (pornografia, cellulare, alcolismo, giochi...). Ci sono molte difficoltà tra i giovani che devono essere affrontate e che sono risolvibili.

Il progetto di mediazione familiare riparativa, che cosa significa?

—Attribuiamo un'importanza fondamentale a questo corso. La mediazione è una risoluzione dei conflitti all'interno della famiglia e con questa mediazione si aiuta a chiudere bene il conflitto esistente. Ad esempio, una coppia che decide di separarsi, nella mediazione ciò che si fa è chiudere bene il cerchio: ci separeremo bene, nel modo più amichevole e nel miglior modo possibile.

In particolare, la mediazione familiare riparativa aggiunge il tentativo di sanare ciò che era rotto. Arrivare alle radici del conflitto e, se c'è una soluzione, cercare di risolverlo. Noi pensiamo che, se è possibile risolvere il problema, bisogna provarci.

In questi casi è necessario che entrambe le parti si impegnino a risolvere il problema. Ci saranno momenti in cui sarà impossibile risolvere il caso e la soluzione consigliata sarà la separazione, l'annullamento o altro. Sono convinto che in moltissimi casi la famiglia possa riprovare una seconda volta.

Questo corso inizia il 13 gennaio.

Esiste un riconoscimento ufficiale per questo corso?

—Certo. Siamo una fondazione riconosciuta per l'insegnamento di questi corsi. Chi li frequenta ottiene un titolo che abilita all'esercizio della professione. Sono mediatori professionisti e possono aprire uno studio per esercitare la mediazione.

Che tipo di persone possono ricorrere a questa mediazione familiare?

—Chiunque abbia difficoltà in famiglia o un problema che non sa come risolvere. Non si tratta solo di casi di divorzio, ma di tutti i tipi di conflitti familiari, da due fratelli che non sono d'accordo su un'eredità alle difficoltà che una famiglia ha nel prendersi cura dei propri anziani. Quando un problema in una famiglia inizia a dare fastidio più del necessario, è il momento di chiedere una mediazione. Una discussione tra marito e moglie, tra fratelli, conflitti con la famiglia allargata o tra genitori e figli. Si tratta di una mediazione o di un accompagnamento.

La differenza fondamentale è che la mediazione familiare riparativa mira a risolvere il problema alla radice. Riparare ciò che è rotto. La mediazione, invece, consiste semplicemente nel raggiungere un accordo per chiudere una questione. 

In questa mediazione familiare, con enfasi sulla funzione riparativa, credo che FASE sia l'unica.

—Non siamo a conoscenza dell'esistenza di altre istituzioni simili, ma è possibile che ce ne siano. In ogni caso, siamo sicuramente molto innovativi. Partendo dal presupposto che la famiglia è il fondamento della società, lottiamo affinché le famiglie non si disgreghino. Anche se, ovviamente, non sempre è possibile.

Spesso entra in gioco l'amor proprio. A volte, quando c'è un conflitto, non si cede di fronte a un fratello o a chiunque altro, ma se c'è una mediazione, qualcuno esterno, si finisce per cedere. Tuttavia, questo scontro tra due membri della famiglia spesso si inasprisce. 

Formare i formatori credo sia un'opportunità unica nella difesa della famiglia.

Ci sono istituzioni pubbliche che hanno anche dei mediatori, ma non sembra che abbiano un ruolo importante nel cercare di evitare la rottura di quel matrimonio.

—È vero che le comunità autonome dispongono di centri di assistenza alle famiglie dove viene offerta la mediazione. Ma lì si conclude qualcosa che le famiglie hanno già concordato: un'eredità, per esempio. In questa mediazione si cerca di raggiungere un accordo per risolvere un problema, ma non per ripristinare i rapporti tra i membri. 

Oppure una coppia che ha già deciso di separarsi, per concludere l'accordo di divorzio nel miglior modo possibile. Non per cercare di dare una seconda possibilità al matrimonio, se entrambi lo desiderano.

Noi, ovviamente, rispettiamo al massimo la libertà delle persone, ma facciamo anche capire che ciò che è salvabile in un matrimonio è salvabile e che si può dare una seconda possibilità. 

Come si forma un mediatore? Con materie di psicologia, di diritto? 

—Un po' di tutto. Sono cento ore, con esercitazioni di mediazione. Nacho Tornel, mediatore di riconosciuto prestigio e una delle massime autorità in Spagna in materia di mediazione, è il nostro direttore accademico. 

Questo primo corso inizierà con un gruppo di 25 posti disponibili per mediatori. 

Non l'abbiamo ancora lanciato pubblicamente e già stiamo ricevendo chiamate da persone che desiderano ricevere mediazione e altre che desiderano formarsi. L'entusiasmo è alle stelle.

È un corso molto interessante per tutte le persone che hanno rapporti con gli altri, perché la risoluzione dei conflitti è all'ordine del giorno. Come puoi risolvere i conflitti con gli altri? La mediazione, il sostegno e l'accompagnamento nei conflitti sono aspetti fondamentali che tutti dovrebbero conoscere. 

Alberto San Juan con José María Navalpotro. ©Carlos Martínez

Il corso è in presenza?

—Sì, nella nostra sede. È al 100% in presenza, per avere quel legame e quella vicinanza con gli studenti. 

A quante persone può giovare la mediazione riparativa? 

—I dati sul divorzio non sono affatto positivi. Attualmente, in Spagna il 50% dei matrimoni finisce con una separazione. Altri sostengono che sia il 70%. La realtà è che in Spagna ci sono circa 100.000 matrimoni all'anno e 70.000 separazioni. 

È una delle principali sfide che la società deve affrontare. Si parla molto di alloggi, corruzione, disoccupazione, ma credo che le rotture familiari siano uno dei problemi più gravi. Alla fine, ciò che ti rende felice è la vita in famiglia. La famiglia è il luogo in cui dai più amore, in cui ricevi più amore, in cui ti vogliono per come sei, in cui ti senti davvero felice, in cui ti realizzi davvero. Se non hai una famiglia, ti manca qualcosa.

Se vogliamo creare una società stabile in cui sia possibile trasmettere i valori e in cui le persone possano svilupparsi, siamo convinti che ciò debba avvenire a partire dalla famiglia. 

In che modo FASE si relaziona con altri centri di orientamento familiare (ad esempio quelli diocesani, i COF) presenti in tutta la Spagna? Sono concorrenti?

—Fanno un lavoro fantastico e fanno molto bene. Ma la nostra è una figura diversa. È un titolo riconosciuto dal Ministero della Giustizia.

Ora è obbligatorio, prima di andare in tribunale, passare attraverso una mediazione. Quindi, se vai in tribunale e dici che non vuoi separarti, ti obbligano prima a passare attraverso una mediazione. È una cosa molto positiva. 

Coloro che esercitano la mediazione nei COF dovrebbero frequentare dei corsi per ottenere la qualifica che consente loro di esercitare in tutto l'ambito giuridico. Infatti, molti avvocati si stanno iscrivendo a questo corso per ottenere il riconoscimento come mediatori familiari, perché è un passo preliminare prima di rivolgersi a un avvocato.

Il libro sulla leadership delle politiche familiari è un altro progetto nato dalle sessioni periodiche organizzate da FASE e rivolto ai politici locali. Qual è l'obiettivo? 

—Siamo convinti che i politici abbiano un'influenza diretta sulla società e possano cambiare le cose. Infatti, sono loro che fanno le leggi e dai municipi possono cambiare molte cose, dall'imposta sui beni immobili (IBI) a una serie di programmi per le famiglie. 

Abbiamo diagnosticato con precisione i problemi della famiglia e sappiamo anche che spesso i politici ignorano tali problemi, perché la quotidianità è complessa e perché forse non sono esperti in servizi sociali.

Il nostro obiettivo è quello di formare i politici affinché comprendano la realtà delle famiglie. Una volta individuati i problemi, fornire loro gli strumenti per risolverli. 

Quali strumenti?

—Da due punti di vista. Scegliamo un tema: Famiglia e disabilità, per esempio. Un accademico espone la sua relazione sulla disabilità nella famiglia e un politico che ha avuto buone pratiche in materia di disabilità lo spiega agli altri.

I risultati sono tangibili? 

—Non è normale che un politico voglia fare le cose male. Nel momento in cui viene a conoscenza di un problema, il politico vuole risolverlo. Molte volte, però, non ne è a conoscenza o non sa come risolverlo. Per questo motivo, i corsi che teniamo illustrano ai politici come questi problemi sono stati risolti in luoghi diversi. Buone pratiche comunali, in altri comuni.

Il risultato è fantastico. I politici hanno la possibilità di consultare altri assistenti, accademici, professori, per capire come fanno le cose. In politica, soprattutto nei comuni, quando il sindaco compila le liste dei consiglieri, assegna competenze a determinate persone. Quando ti nominano consigliere dei servizi sociali, in questo caso, può darsi che tu non abbia alcuna esperienza in materia e che non ne sappia assolutamente nulla. 

Questo programma politico consiste nel fornire tale sostegno ai consiglieri comunali o ai deputati nella risoluzione dei conflitti che devono esaminare. 

Quanti politici, consiglieri comunali, deputati ecc. hanno partecipato in questi anni? 

—È un corso molto conosciuto, che si tiene una volta al mese. Vi partecipano tra i 50 e i 60 iscritti. È come una pioggia sottile che penetra e forma. Poi ci chiedono informazioni, documenti. Il libro che abbiamo appena pubblicato è uno strumento molto utile per loro.

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Cultura

‘Bariona’: Jean-Paul Sartre ha portato la speranza del Natale davanti ai nazisti

‘Bariona, il figlio del tuono, opera eccezionale di Jean-Paul Sartre, aiuta a comprendere il suo pensiero in un contesto estremo. Fu scritta e rappresentata nel Natale del 1940 in un campo di prigionia nazista vicino a Treviri, dove Sartre era uno dei 15.000 prigionieri. In Bariona Sartre ha innalzato la bandiera della speranza.  

Francisco Otamendi-17 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

La prima opera teatrale del filosofo e scrittore francese Jean Paul Sartre, ‘Barioná, il figlio del tuono’, fu concepita e rappresentata in un campo nazista, dove Sartre era prigioniero. Il tema centrale era il mistero del Natale e il messaggio era di speranza. Il filosofo esistenzialista si riservò il ruolo di Baltazar, uno dei personaggi principali.

La storia è la seguente. Nel novembre del 1940 alcuni sacerdoti dello Stalag 12D, un campo nazista vicino a Treviri (Germania), ottennero il permesso di celebrare la Messa di Mezzanotte in una delle baracche, racconta il sacerdote e professore navarro Javier Marrodán, in una recensione all'edizione di Voz de Papel del 2012.

Genesi dell'opera teatrale ‘Barioná’

Tra i 15.000 prigionieri c'era anche Jean-Paul Sartre, già allora scrittore famoso. Si era arruolato nell'esercito francese come meteorologo ed era stato arrestato quando i tedeschi occuparono la Francia.

Jean-Paul Sartre volle contribuire alla celebrazione e si offrì di comporre e rappresentare un'opera teatrale sul Natale. Aveva 35 anni, aveva già pubblicato ‘La nausea’, stava scrivendo ‘L'essere e il nulla’, era un ateo ‘ufficiale’ e organizzava corsi su Heidegger e l'esistenzialismo per i suoi compagni del campo.

Acto de resistencia espiritual y colectivo 

In sole sei settimane, Sarte non solo scrisse il testo, ma distribuì le parti, organizzò le prove, supervisionò gli oggetti di scena e la musica e recitò lui stesso nel ruolo di uno dei personaggi principali, Baltasar. 

Il palcoscenico si è trasformato in un atto di resistenza spirituale e collettiva: un'affermazione di significato, speranza e convivenza di fronte all'oppressione.

Barioná, uomo senza speranza

Il protagonista, Barioná, è il capo degli ebrei di Bethsur, un villaggio vicino a Betlemme. Odia i romani ed è scettico nei confronti del racconto dei pastori. Questi ultimi assicurano che un angelo ha annunciato loro la nascita del Messia in una stalla vicina.

Bariona è un uomo senza speranza, sconfitto, senza alcuna illusione per il futuro. Nemmeno la gravidanza di sua moglie Sara allevia i suoi pensieri cupi e pessimistici. Anche lui aveva desiderato l'arrivo del Messia, ma non quello di un bambino indifeso.

Baltasar sottolinea Gesù come annuncio di speranza 

Da questo punto in poi, il dramma introduce la nascita di Gesù come annuncio di speranza per il mondo. I pastori portano la notizia dell'arrivo del Messia e personaggi come Baltasar (interpretato da Sartre) dialogano con Barioná sull'importanza della speranza, della dignità umana e della libertà.

Baltasar gli spiega con profondità teologica – e pazienza, riferisce Marrodán – che Dio è sceso sulla Terra per lui, che ha voluto compiere quella follia anche se gli costa crederci. E che per questo ogni uomo è già molto più di quanto aspirasse ad essere, che la nascita di Gesù è causa di speranza e conferisce alla sofferenza il suo vero significato. 

Profondo impatto tra i detenuti

L'opera ebbe un profondo impatto sui prigionieri. Secondo alcune testimonianze, molti ricordano ancora oggi, a distanza di anni, le parole di Sartre sul significato della sofferenza e della speranza, anche se il testo non è stato ampiamente diffuso per decenni. 

Diversi autori sottolineano che Barioná combina storia e contesto vitale, il Natale come narrazione della speranza umana e la filosofia esistenzialista applicata all'azione: libertà, responsabilità e impegno umano di fronte alla sofferenza. 

Il mistero del Natale e il mistero nella vita di Sartre

Alcuni prigionieri si convertirono e altri ricordavano “chiaramente” anni dopo le parole di Sartre-Baltasar sulla sofferenza e la grandezza della redenzione. Lo hanno documentato, ad esempio, Charles Moeller, autore dei famosi volumi su ‘Letteratura del XX secolo e Cristianesimo’, e il professor José Ángel Agejas, filosofo e docente dell'Università Francisco de Vitoria (Madrid). 

Quella vigilia di Natale del 1940 “Sartre aggiunse al grande mistero del Natale il mistero non da poco della propria vita”, conclude Javier Marrodán, dottore in Comunicazione presso l'Università di Navarra. “Con l'aiuto di Baltasar, ovviamente”. A proposito, Marrodán ha scritto la sua tesi di dottorato su Albert Camus. Ma questa è un'altra storia.

L'autoreFrancisco Otamendi

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Natale in Piazza San Pietro

Il presepe e l'albero di Natale vengono svelati in Piazza San Pietro in Vaticano il 15 dicembre 2025.

Redazione Omnes-16 dicembre 2025-Tempo di lettura: < 1 minuto
Libri

«Verso la patria dell'Amore eterno», nuova antologia poetica per riscoprire il Natale

L'opera, di oltre 500 pagine e 270 poesie, è un ottimo testo per chi ama meditare sui misteri dell'incarnazione nel periodo natalizio.

Javier García Herrería-16 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Alla vigilia di Natale arriva nelle librerie Verso la patria dell'Amore eterno, un'opera singolare firmata da Luis Fernández Conde (Madrid, 1944), pensata per coloro che desiderano contemplare il mistero cristiano attraverso la bellezza della parola. Filosofo e giornalista di formazione, Fernández Conde propone un viaggio attraverso otto secoli di poesia religiosa in lingua castigliana, dai primi testi medievali alle voci contemporanee.

Luis Fernández Conde, autore dell'antologia.

L'opera raccoglie poesie sulla nascita e l'infanzia di Gesù Cristo. “È un percorso al tempo stesso estetico e teologico.”, spiega l'autore. Una combinazione che, secondo lui, permette di leggere l'antologia “anche lentamente, in modo contemplativo”, come chi avanza attraverso una storia viva: quella della salvezza.

Una regola d'oro: le “tre P”

Alla domanda sui criteri di selezione delle poesie, Fernández Conde riassume il suo metodo in una semplice regola mnemonica. “Sceglievo un testo poetico quando soddisfaceva le tre condizioni seguenti: essere Pio, essere Popolare ed essere Poetico.”. Questa triplice esigenza —contenuto cristiano, chiarezza accessibile e qualità letteraria— conferisce all'antologia un carattere unico.

"Volevo che fosse possibile godere della grande bellezza che racchiudono e, allo stesso tempo, avvicinarsi a una maggiore comprensione della fede cristiana attraverso le risorse della poetica."Aggiunge.

Un lavoro di ricerca minuzioso

La genesi del libro è stata lunga e meticolosa. Gran parte della ricerca è stata condotta presso la Biblioteca Nazionale: “Ho gestito gli originali e così ho potuto trovare testi inediti e confrontare altri pubblicati in versioni successive, riuscendo a correggere errori tipografici, errori e alterazioni fastidiose.".

Ai manoscritti antichi si aggiungono edizioni critiche affidabili di grandi collezioni del XX secolo, che rendono questo volume uno strumento di consultazione rigoroso.

Cosa ispira così tanto i poeti quando parlano della nascita di Cristo? Per Fernández Conde, la risposta è chiara: “Gli stessi sentimenti — tenerezza, dolore, gioia, povertà — che provano i membri della Sacra Famiglia e che sono al tempo stesso pienamente umani e pienamente divini.”. Tutto ciò ha un denominatore comune: “L'Amore con la A maiuscola”. Da qui derivano i numerosi versi che utilizzano il doppio senso dell'amore umano “versato al divino".

Una tradizione che continua a vivere

L'antologia evidenzia, secondo il suo autore, la forza culturale e catechetica della poesia religiosa. “La poesia a contenuto religioso è sempre stata presente nella storia della Chiesa come forma di espressione liturgica e dottrinale.”, ricorda. Canti natalizi, rappresentazioni sacre, composizioni popolari... Una memoria tramandata di generazione in generazione.

"La poesia cristiana popolare continua a vivere”, afferma. “Pensa ai canti natalizi a Natale o alle saetas della Settimana Santa.”. E aggiunge un dato non trascurabile: il mondo ispanico conserva probabilmente “il corpus di poesia popolare cristiana più importante al mondo".

Un'attenta cura editoriale

L'edizione si distingue anche per la cura dei dettagli: un formato di caratteri grandi, note e introduzioni nella stessa pagina, blocchi di strofe visivamente chiari, ripetizioni indicate in grassetto. “Tutto ciò consente una percezione visiva unitaria del testo poetico, mettendo in risalto la musicalità insita in ogni poesia.”, spiega l'autore.

Inoltre, il volume include un sistema di indici pensato per facilitare la consultazione da parte di studenti, professori, filologi o lettori curiosi.

A chi lo consiglierei? “A chi desidera godersi una lettura contemplativa e culturalmente arricchente”. E anche a coloro che studiano la lingua spagnola, poiché questa antologia aiuta a comprendere il contesto culturale di molte espressioni del castigliano.

Sorprese tra i manoscritti

Nel suo lavoro di raccolta, Fernández Conde ha scoperto gioielli poco conosciuti. “Il lavoro riservava una sorpresa dopo l'altra.”, ammette. Tra queste, una delicata seguidilla anonima inclusa in un volume del 1662, la cui semplice emozione lo ha catturato fin dalla prima lettura:

Venite, venite nella valle,
divino pastorello,
che vi invitino le arie
dei miei sospiri...

Oh, figlio mio!
Come mai, essendo il Sole bello,
Avete freddo?

Verso la patria dell'Amore eterno

Autore: Luis Fernández Conde
Editoriale: Amazon autopubblicazione
Anno: 2025
Numero di pagine: 547
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Ecologia integrale

Elisa Lisiero: “L'accompagnatore spirituale deve avere una giusta comprensione del proprio ruolo di mediatore”

Abbiamo intervistato un'esperta del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita sui meccanismi per proteggere i fedeli dagli abusi di potere e di coscienza.

Javier García Herrería-16 dicembre 2025-Tempo di lettura: 4 minuti

Elisa Lisiero è funzionaria del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita e docente ricercatrice presso l'Università della Santa Croce, a Roma. Si occupa principalmente dello studio dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, con particolare attenzione allo status giuridico dei fedeli all'interno di queste realtà aggregative.

Qualche giorno fa ha partecipato a un convegno su La libertà come bene giuridico nella Chiesa, presso la Facoltà di Diritto Canonico dell'Università di Navarra. Il Diritto Canonico può sembrare complesso, ma è la struttura che permette alla Chiesa di svilupparsi in modo sano. 

Cosa ha voluto sottolineare nella sua conferenza sulla libertà all'interno delle associazioni e dei movimenti?

—Ho voluto sottolineare un concetto fondamentale: la libertà di cui gode un fedele all'interno di qualsiasi associazione o movimento non è assoluta. È una libertà che deve sempre rientrare in coordinate ben precise: nel quadro del diritto associativo, nel contesto delle norme canoniche e, naturalmente, nella struttura organizzativa e negli statuti di ciascuna comunità.

Tuttavia, il punto cruciale è che questa libertà si riferisce in primo luogo ai diritti fondamentali dei fedeli. Ciò presuppone il riconoscimento di una priorità assoluta della loro condizione di fedeli della Chiesa. 

Le tensioni o i problemi a livello di libertà sorgono proprio quando questa dimensione fondamentale – che appartiene alla dimensione costituzionale dell“”essere fedeli» – non viene considerata a sufficienza. Ciò può essere dovuto a diversi fattori, come una visione errata del carisma, deviazioni che portano all'abuso di autorità o al mancato riconoscimento adeguato dello stato di vita di ogni persona, una concezione errata dell'obbedienza, specialmente in quelle associazioni in cui vi sono sezioni di membri con forme di vita in comune. 

Negli ultimi anni molte istituzioni della Chiesa hanno modificato parte dei propri statuti per adeguarli alle nuove normative della Santa Sede? 

—Le modifiche più frequenti sono state apportate per adeguarsi al “Decreto Generale del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita sulle Associazioni di Fedeli», pubblicato nel 2021. Tale testo regola l'esercizio del governo nelle associazioni internazionali di fedeli, in particolare la durata massima dei mandati nell'organo centrale di governo (cfr. artt. 1 e 2 Decreto Generale 2021) e la rappresentatività, che si riferisce al fatto che tutti i membri pleno iure siano rappresentati nell'elezione dell'organo centrale, ovvero abbiano voce attiva, diretta o indiretta, nella costituzione dell'istanza che elegge l'organo centrale di governo a livello internazionale (cfr. Art. 3 Decreto Generale 2021).

Nell'ambito di un processo ordinario, alcune istituzioni hanno anche apportato modifiche ai propri statuti perché era necessario un aggiornamento dopo diversi anni dalla fondazione o dall'ultima revisione. In alcuni casi, è stato necessario apportare modifiche perché sono emersi aspetti problematici relativi alle condizioni di vita dei membri o allo stile di governo. 

Quali diritti concreti dei fedeli sta cercando di proteggere la Chiesa negli ultimi anni nell'ambito dell'accompagnamento spirituale?

—Un diritto che viene normalmente rivendicato è quello alla tutela della privacy, sancito dal canone 220 del Codice di Diritto Canonico, che stabilisce che “a nessuno è lecito violare il diritto di ciascuno di proteggere la propria intimità”. In base a tale diritto, ai fedeli deve essere riconosciuta la libertà di scegliere la persona a cui manifestare la propria coscienza, sia essa il confessore o l'accompagnatore spirituale. Va ricordato che, nel caso della confessione, esiste esplicitamente il diritto di scegliere il confessore (cfr. c. 991) e che, per i religiosi, è stabilito che i superiori devono riconoscere la dovuta libertà riguardo al sacramento della penitenza e alla direzione spirituale (cfr. c. 630 § 1).

Quali meccanismi esistono o dovrebbero essere rafforzati affinché una pratica di accompagnamento non si trasformi in una forma di controllo o coercizione spirituale? 

—Il primo aspetto è che ci sia libertà nella scelta dell'accompagnatore o del direttore spirituale, come ho già detto. Un altro aspetto fondamentale è la preparazione di coloro che esercitano queste funzioni, a partire da un'adeguata formazione teologica e proseguendo con la necessità che raggiungano un certo grado di maturità umana, cristiana e spirituale. 

L'accompagnatore deve anche avere una giusta comprensione del proprio ruolo di mediatore nella ricerca della volontà di Dio, senza sostituirsi in alcun modo alla persona e alla sua coscienza. In realtà, gli abusi spirituali e di coscienza a volte hanno origine proprio da questo: quando ci si sostituisce alla persona nella sua ricerca della volontà di Dio.

Infine, occorre anche evitare ogni forma di confusione tra foro interno e foro esterno, che può verificarsi soprattutto quando l'accompagnatore spirituale ricopre anche cariche di autorità nell'associazione e utilizza le informazioni ricevute nel contesto dell'accompagnamento per governare.  

Da parte di chi è accompagnato è richiesto un certo grado di libertà per ricorrere all'accompagnamento spirituale. Deve cercare consiglio, ma non deve cercare che altri scelgano o decidano al posto suo. 

È molto importante che i fedeli conoscano i propri diritti a livello ecclesiale, perché credo che molte delle deviazioni si verifichino a causa della mancanza di conoscenza dei propri diritti e dei beni giuridici che vengono compromessi.

Esiste un meccanismo specifico che si intende introdurre nel Codice di Diritto Canonico per evitare, in generale, gli abusi di potere e spirituali?

—Attualmente si sta riflettendo molto, a livello dottrinale, su questi temi. Va precisato che, nell'attuale ordinamento canonico, esiste una legge penale sull'abuso di potere, di ufficio o di carica (c. 1378). Alcuni casi di abuso di potere potrebbero essere ricondotti a questo reato penale. Per quanto riguarda gli abusi spirituali, non esistono definizioni universalmente riconosciute, né protezione penale, anche se si stanno compiendo progressi in questo campo.

Su proposta del Dicastero per la Dottrina della Fede, il 22 novembre 2024 Papa Francesco ha approvato la costituzione di un gruppo di lavoro, presieduto dal Prefetto del Dicastero per i Testi Legislativi, incaricato di valutare la possibilità di tipizzare il reato di “abuso spirituale” e di presentare proposte concrete al riguardo. 

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Mondo

Tre premi Nobel per la pace, protagonisti in questi giorni

Tre premi Nobel per la Pace sono protagonisti in questi giorni, per diversi motivi. Narges Mohammadi (Iran), difensore dei diritti delle donne, e gli oppositori María Corina Machado (Venezuela) e Ales Bialiatski (Bielorussia).

Francisco Otamendi-16 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Tre premi Nobel sono balzati agli onori della cronaca in questi giorni per diversi motivi, diventando protagonisti dell'attualità. Narges Mohammadi (Iran, Nobel nel 2023), María Corina Machado (Venezuela, Nobel nel 2025) e Ales Bialiatski (Bielorussia, Nobel nel 2022).

L'iraniana Narges Mohammadi, condannata nel 2022 per aver denunciato la violenza contro le donne e rilasciata per motivi di salute alla fine del 2024, è stata arrestata con violenza venerdì scorso. Il Comitato Nobel ha espresso preoccupazione per il “brutale” arresto e ha esortato Teheran a chiarire dove si trova la difensora dei diritti umani e a rilasciarla immediatamente.

Venezuela: gravi rischi per Machado

La venezuelana María Corina Machado ha vinto il Premio Nobel per la Pace 2025, per la sua leadership nella lotta per i diritti democratici in Venezuela. Il Comitato ha denominato “Una coraggiosa e impegnata sostenitrice della pace: una donna che mantiene viva la fiamma della democrazia in mezzo a un'oscurità crescente”.

Tuttavia, non è riuscito ad arrivare in tempo per la cerimonia principale del 10 dicembre a Oslo, a causa delle difficoltà incontrate nel lasciare il Venezuela e raggiungere il Paese. Una sua figlia ha ricevuto il premio al suo posto. Machado ha affrontato seri rischi durante il viaggio, secondo quanto da lui dichiarato, ma alla fine è riuscito ad arrivare in Norvegia.

Bielorussia: rilasciato il premio Nobel Bialiatski e l'oppositrice Kolesnikova

Sabato scorso la Bielorussia ha rilasciato 123 prigionieri, tra cui il premio Nobel per la pace Ales Bialiatski e la leader dell'opposizione Maria Kolesnikova, a seguito di un accordo negoziato con gli Stati Uniti. L'annuncio è stato dato dal gruppo per la difesa dei diritti umani Viasna, secondo quanto riportato da informato.

L'attivista, in viaggio verso la Lituania, ha dichiarato a un media dell'opposizione bielorussa una volta liberato che “la lotta continua”. 

La notizia è arrivata dopo che il dirigente statunitense John Coale ha riferito che Washington avrebbe revocato le sanzioni contro la potassa bielorussa. Questo componente, di cui la Bielorussia è un grande produttore, viene utilizzato per la produzione di fertilizzanti.

Mediazione nordamericana

Negli ultimi mesi, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha esortato la Bielorussia a liberare le centinaia di prigionieri politici presenti nel Paese. In cambio, Washington ha parzialmente revocato le sanzioni contro la compagnia aerea bielorussa Belavia. Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha incarcerato migliaia di oppositori dalla sua rielezione nel 2020.

Sempre secondo fonti svizzere, Coale ha aggiunto che il buon rapporto di Lukashenko con Vladimir Putin potrebbe essere “molto utile” nella mediazione statunitense per porre fine alla guerra tra Ucraina e Russia.

143 premi Nobel, 112 persone e 31 istituzioni

Secondo i dati ufficiali, dal 1901 al 2025 il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato 106 volte, con 143 premi, di cui 112 a persone e 31 a organizzazioni, tra cui non figura la Chiesa cattolica (né alcun Papa).

Sono stati premiati invece Madre Teresa, Santa Teresa di Calcutta, il polacco Lech Walesa (1983) o l'argentino Pérez Esquivel (1980). Anche i leader Martin Luther King Jr., battista, e Desmond Tutu, anglicano, e il buddista Dalai Lama.

I presidenti statunitensi premiati sono stati quattro: Theodore Roosevelt (1906), Woodrow Wilson (1919), Jimmy Carter (2002) e Barack Obama (2009). È stato premiato anche, ad esempio, il presidente sudafricano Nelson Mandela (1993).

L'autoreFrancisco Otamendi

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Zoom

I pellegrini vegliano con la Vergine di Guadalupe

Un pellegrino dorme accanto a un'immagine della Madonna di Guadalupe all'esterno della basilica a lei dedicata a Città del Messico, il 12 dicembre 2025.

Redazione Omnes-15 dicembre 2025-Tempo di lettura: < 1 minuto

Allarme rosso: la routine minaccia il tuo matrimonio

Il matrimonio è un patto, un accordo che proponiamo in un determinato modo all'inizio della relazione e che dobbiamo riproporre, più e più volte, in modi diversi.

15 dicembre 2025-Tempo di lettura: 4 minuti

Molte volte ho la sensazione di vivere il mio matrimonio sopravvivendo; che mi manchino le strategie o le risorse per godermelo di più. C'è sempre qualcosa che si frappone: o i figli che richiedono tempo senza sosta, le esigenze del lavoro che svolgiamo fuori casa o necessità materiali di qualche tipo: mancano le salviette per cambiare i pannolini, l'olio per cucinare, o il bucato non si asciuga nemmeno con l'asciugatrice... E, soprattutto, la cosa più difficile da superare è il malessere che si instaura tra me e mio marito quando le nostre conversazioni si riducono a parlare di tutto questo, a chiederci cose e a gestire i bambini. 

Quando viviamo così da molto tempo, in cui la vita in casa è pura gestione, è inevitabile entrare in circoli viziosi mentali, cercando un senso a ciò che si ripete ogni giorno e che sembra eclissare tutta la tua vita. Si può persino arrivare a pensare: in che momento mi sono cacciato in questo pasticcio? Come ne esco? O addirittura: e se avessi sbagliato vita? Mi sembrano domande naturali che possiamo porci interiormente. 

In un articolo pubblicato sul New York Times, Alain de Botton afferma: “La buona notizia è che non importa se ci rendiamo conto di aver sposato la persona sbagliata. Non dobbiamo abbandonare quella persona, ma piuttosto l'idea romantica su cui si è basata la concezione occidentale del matrimonio negli ultimi 250 anni: esiste un essere perfetto in grado di soddisfare tutti i nostri bisogni e ogni nostro desiderio”. 

Lungi dal concordare con tutto ciò che sostiene questo pensatore, nella sua argomentazione c'è un'idea che vorrei sottolineare a tutti i costi. Certo, il matrimonio è un contratto giuridico che cerca di proteggere tutti i suoi membri, certo, il matrimonio è un sacramento della Chiesa cattolica in cui Dio si manifesta con tutta la sua grazia affinché noi portiamo avanti questa relazione così intensa. 

Ma il matrimonio è anche un patto, un accordo che proponiamo in un determinato modo all'inizio della relazione e che dobbiamo riproporre più volte in modi diversi poiché, con il passare del tempo e i continui cambiamenti che avvengono nella nostra vita, molti dettagli di quel primo patto smettono di definire chiaramente la nostra quotidianità. Inoltre, molte delle aspettative che avevamo all'inizio non si sono realizzate e dobbiamo rivederle per non compromettere l'intera relazione.  

Questa domanda sul senso di tutto questo caos sta chiedendo a gran voce che marito e moglie trovino modi più creativi per vivere il loro matrimonio e questa creatività diventa inevitabile, poiché ci troviamo di fronte a una delle relazioni più dinamiche che possano esistere tra due esseri umani. 

Questa creatività non mira a rompere il rapporto, ma a ridefinirlo in modo tale che tutto ciò che abbiamo deciso quando abbiamo detto “sì” abbia nuovamente senso. E questo possono farlo solo marito e moglie tra loro, solo loro possono rispondere alle domande sul significato del loro matrimonio e proporsi di arrivare fino alla fine dell'amore, finché morte non ci separi. 

Questo modo di vedere il nostro matrimonio come un costante rinnovamento di quel primo patto d'amore è diametralmente opposto alle proposte culturali e ideologiche più rigide, come quella che ci viene presentata nel film “La storia di un matrimonio”. In esso si vedono molte delle dinamiche che caratterizzano un matrimonio, ma si vede molto poco della creatività che i coniugi possono sviluppare per migliorare la situazione.       

Questo film racconta con grande sensibilità la storia di una coppia unita da un figlio e dalla stessa passione: il teatro. Lui dirige una compagnia teatrale e lei è l'attrice protagonista delle sue opere. Tra i due si percepisce stabilità: sembrano conoscersi profondamente, si ammirano e si prendono cura del figlio con grande dedizione. 

Tra loro tutto sembra andare bene, finché un giorno lei annuncia di voler cambiare lavoro e città. La reazione di lui è superficiale, non approfondisce il significato che quel progetto ha per lei. Non si ferma a considerare i desideri profondi di sua moglie. Di fronte a quella reazione, lei decide di farlo senza lottare per un accordo con il marito. Da quel momento, la storia precipita. Lei inizia una nuova vita professionale lontano da casa ed entrambi iniziano una battaglia per la custodia del bambino. Nasce allora un vortice di supposizioni, sentimenti repressi e domande che mettono in dubbio il senso di ciò che hanno vissuto fino a quel momento. Entrambi rimangono intrappolati in un circolo vizioso dal quale non sanno come uscire.

In fondo, il film racconta il crollo di una relazione incapace di avere una storia propria, raccontata da loro stessi e non da terzi. Condividono l'amore per il teatro e adorano il loro figlio, ma nessuna delle due cose serve a ripensare la loro relazione in modo creativo, senza romperla. Nessuno dei due osa aprirsi completamente all'altro; ciò comporterebbe discutere, vivere tensioni e avere conversazioni dure e spiacevoli. Decidono di non entrare in quel terreno, di non chiarire i sentimenti. Lei tace ciò che prova da tempo; lui evita di affrontare i sentimenti della moglie, soprattutto quelli che avrebbe potuto risolvere.  

La rigidità della narrazione risiede proprio in questo: nel presentare una successione di eventi come se, di per sé, costituissero la storia di un matrimonio. E sebbene il film sia magnifico e ritragga con successo la complessità della vita di coppia, lascia irrisolti molti sentimenti, come se fosse possibile vivere così, senza chiarirli.

Il divorzio appare improvvisamente come l'unica via d'uscita possibile affinché lei possa trovare la soddisfazione che non ha ottenuto con suo marito. Rivolgendosi agli avvocati, entrambi rivelano l'essenza della loro relazione: è stato un lasciarsi andare fin dall'inizio, non c'è mai stato alcun patto tra loro. Lei stessa lo ammette: è entrata nella vita di lui senza alcuna negoziazione. 

Ancora una volta, nello stesso articolo di Alain de Botton trovo un'idea che vorrei sottolineare prima di concludere: “La persona migliore per noi non è quella che condivide tutti i nostri gusti (una persona del genere non esiste), ma quella che sa negoziare con intelligenza le differenze di gusto, quella che sa dissentire con garbo. Invece dell'idea immaginaria del complemento perfetto, è proprio la capacità di tollerare le differenze con generosità che indica veramente chi è la persona “meno categoricamente sbagliata”. La compatibilità è un risultato dell'amore; non deve essere una condizione preliminare”.

Credo che sia proprio questo, “l'arte di discutere bene”, a definire la storia di un buon matrimonio. 

L'autoreAlmudena Rivadulla Durán

Sposata, madre di tre figli e dottore in filosofia.

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Vaticano

I presepi invadono il Vaticano e il mondo cattolico

Il Natale “divora” l'Avvento. Nel pomeriggio di lunedì 15 dicembre, in Piazza San Pietro, verrà inaugurato il Presepe e verrà acceso l'albero di Natale. Prosegue anche la mostra internazionale ‘100 presepi in Vaticano’, sotto il Colonnato del Bernini, e sabato si è tenuto il Presepe vivente di Santa Maria Maggiore.  

Francisco Otamendi-15 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Nella terza domenica di Avvento, o domenica della Gioia (Gaudete), celebrando il Giubileo dei Detenuti, il Papa ha sottolineato che è sempre possibile ricominciare da capo e ha invocato la speranza di Gesù, la cui nascita è ormai vicina. L'attesa del Natale è già palpabile nei presepi, rappresentazioni della Natività del Signore, che inondano il Vaticano e il mondo cattolico.

Se sabato la notizia era l'udienza di Papa Leone XIV al cardinale lituano Rolandas Makrickas e ai partecipanti che avrebbero dato vita al ’Presepe Vivente’ di Santa Maria Maggiore, oggi si svolge la inaugurazione del presepe e l'illuminazione dell'albero in Piazza San Pietro in Vaticano.

La cerimonia è prevista per le ore 17.00 e sarà presieduta da Suor Raffaella Petrini, Presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, insieme all'arcivescovo Emilio Nappa e a Giuseppe Puglisi-Alibrandi, segretari generali dello stesso ente. I presepi e l'albero rimarranno esposti fino alla fine del periodo natalizio, che coincide con la festa del Battesimo del Signore, domenica 11 gennaio 2026.

Comuni italiani e artista costaricano pro-vita 

Lunedì mattina, Papa Leone XIV riceverà in udienza le delegazioni delle diocesi di Bolzano-Bressanone e Nocera Inferiore-Sarno, guidate dai rispettivi vescovi, poiché l'abete proviene dalla diocesi di Bolzano-Bressanone e il presepe dalla diocesi di Nocera Inferiore-Sarno. 

Saranno presenti anche rappresentanti della società civile. I comuni di Lagundo e Ultimo, e quelli della zona di Agro Nocerino-Sarnese. Alla visita al Papa era presente una delegazione del Costa Rica, ideatrice del ‘Nacimiento Gaudium’.’, opera dell'artista costaricana Paula Sáenz Soto, nell'Aula Paolo VI. L'opera sottolinea il messaggio di pace del Natale e lancia un appello al mondo affinché protegga la vita fin dal concepimento.

Presepe ispirato a San Alfonso Maria de' Liguori

Il presepe di Piazza San Pietro è stato progettato e realizzato a Nocera Inferiore-Sarno. La scena si sviluppa su un rettangolo di 17 x 12 metri, con un'altezza massima di 7,70 metri, secondo quanto comunicato dalla Santa Sede. Presenta elementi caratteristici locali ed elementi architettonici abitati da Sant'Alfonso Maria de' Liguori e dai Servi di Dio Don Enrico Smaldone e Alfonso Russo. 

Il pavimento presenta antiche strade romane in lastre di pietra. Pastori e figure di animali a grandezza naturale sono ancorati ad esso. L'idea era quella di combinare arte e spiritualità in un ambiente che evocasse fede e tradizione.  

Presepe vivente di Santa Maria Maggiore

Questo sabato, durante l'udienza agli artisti del ‘Presepe vivente’ di Santa Maria Maggiore, il Papa li ha incoraggiati a diffondere questo messaggio e a mantenere viva questa tradizione. “Siete un dono di luce per il nostro mondo, che ha un disperato bisogno di continuare ad avere speranza”.

“Il presepe è un segno importante: ci ricorda che facciamo parte di una meravigliosa avventura di salvezza in cui non siamo mai soli”, ha aggiunto Papa Leone, citando Sant'Agostino.

Il Pontefice ha ricordato le origini della tradizione. Fu proprio la “Sacra Culla”, antica reliquia, che, insieme al viaggio in Terra Santa, ispirò San Francesco, nel 1223, a celebrare per la prima volta il ‘Natale di Greccio’.

Rappresentare la Natività del Signore

“Da allora, in diverse parti del mondo si è diffusa l'usanza di rappresentare in vari modi la Natività del Signore, del Dio che ‘viene senza armi, senza forza, [...] per vincere l'orgoglio, la violenza e l'avidità dell'uomo [...] e guidarci alla nostra vera identità’ (Benedetto XVI, Catechesi, 23 dicembre 2009)”.

Il Papa ha anche citato la Lettera Apostolica ‘Admirabile Signum’ di Papa Francesco. Leone XIV ha affermato che, davanti al presepe, “contemplando la scena natalizia, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall'umiltà di Colui che si è fatto uomo per andare incontro a ogni uomo”.

Mostra ‘100 presepi in Vaticano’

Lunedì 8 dicembre, solennità dell'Immacolata Concezione, è stata inaugurata la campione internazionale ‘100 Presepi in Vaticano’, sotto il Colonnato del Bernini, che rimarrà aperta fino all'8 gennaio 2026.

I pezzi provengono da 32 paesi e sono realizzati in vetro, seta, carta, resina e molti altri materiali. Tra questi vi sono molti europei, come Italia, Francia, Croazia, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Slovenia, Romania e Svizzera. 

Sono arrivati anche da altre parti del mondo, come Stati Uniti, Perù, Eritrea, Corea, Venezuela, Taiwan, Brasile, Giappone, Filippine, Indonesia, Paraguay e India. 

Le diverse nazioni sono rappresentate dalle rispettive ambasciate presso la Santa Sede, che hanno promosso l'evento nei propri paesi. L'ingresso è libero, gratuito e senza necessità di prenotazione.

Attentato a Sydney con dodici morti e feriti

Mentre si prepara il Natale, l'ondata di violenza non accenna a diminuire. Ieri, due uomini armati hanno attaccato alcuni ebrei che partecipavano a un evento per celebrare il primo giorno di Hanukkah in quello che sembra essere stato un attacco terroristico a Sydney, secondo quanto riferito dalla polizia del New South Wales. Notizie OSV.

In una conferenza stampa tenutasi a Sydney il 14 dicembre, poche ore dopo la sparatoria, il primo ministro del New South Wales, Chris Minns, ha dichiarato ai giornalisti che 12 persone erano morte, compreso uno dei tiratori, e che 29 persone erano rimaste ferite e trasportate negli ospedali della zona, al momento della chiusura di questa edizione.

L'autoreFrancisco Otamendi

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Libri

Da Pasqua a Pasqua

Fabio Rosini offre omelie domenicali che invitano a vivere la fede e a sperimentare la Pasqua nella vita quotidiana.

Javier García Herrería-15 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Fabio Rosini, nato a Roma nel 1961, è un sacerdote italiano laureato in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico. Attualmente dirige la pastorale vocazionale della diocesi di Roma. È noto per le sue catechesi sui dieci comandamenti, che hanno avuto ampia diffusione internazionale. Ha riscosso grande successo anche come scrittore, con opere quali L'arte del buon combattimento, L'arte di ricominciare o L'arte della vita sana

Da oltre dieci anni Rosini collabora con Radio Vaticana commentando il Vangelo domenicale. Inoltre, ha sviluppato diverse catechesi per Vatican News, affrontando temi come la Quaresima, l'Avvento e personaggi biblici, offrendo profonde riflessioni sulla fede cristiana. 

Rosini possiede una grande capacità di trasmettere la Parola di Dio con profondità e chiarezza, non a caso è professore di omiletica alla Pontificia Università della Santa Croce. In quest'opera ci offre alcune omelie domenicali di rapida lettura, commentando i Vangeli domenicali del ciclo liturgico C, incentrati in particolare sui testi dell'evangelista Luca. I testi hanno una lunghezza di circa 3.000 caratteri, pari a una pagina di estensione.

Più che una semplice raccolta di omelie tradizionali, il libro di Rosini cerca di convincere il lettore che il Vangelo non è solo una dottrina da conoscere, ma un invito a vivere un'esperienza di fede autentica. Ciò che è veramente essenziale non è solo comprendere il messaggio, ma incarnarlo nella vita quotidiana. Pertanto, il suo scopo va oltre la spiegazione del testo biblico: aspira a sfidare il lettore a un incontro profondo e trasformante con Gesù Cristo.

Uno dei grandi meriti dell'opera è la sua capacità di raggiungere sia i lettori esperti nella vita cristiana sia coloro che cercano un approccio più accessibile. Le riflessioni, sebbene concise, sono ricche di una saggezza che tocca il cuore e pone al lettore una domanda essenziale: siamo disposti a vivere ciò che comprendiamo?

Da Pasqua a Pasqua

Autore: Fabio Rosini
Editoriale: Cristianesimo
Numero di pagine: 174
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Cultura

Scienziati cattolici: Benito Daza de Valdés, giurista e ottico

Nel 1634 morì Benito Daza de Valdés, giurista e ottico, autore del primo libro sull'optometria in spagnolo. Questa serie di brevi biografie di scienziati cattolici è pubblicata grazie alla collaborazione della Società degli Scienziati Cattolici di Spagna.

Ignacio del Villar-15 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Benito Daza de Valdés (1591–1634) era un ecclesiastico domenicano e pioniere nell'ottica e nell'optometria, nato a Cordova il 31 marzo 1591. Educato da suo zio, canonico della collegiata di San Hipólito, Benito si laureò in Lettere e Filosofia nel 1606 all'Università di Siviglia. Esercitò la professione di notaio presso il tribunale inquisitorio di Siviglia e nel 1623 pubblicò la sua unica opera conosciuta, «Uso de los antoios» (con antoios si riferisce agli occhiali, cioè agli occhiali da vista). L'opera rivela aspetti della vita personale di Daza. Durante l'infanzia soffrì di gravi malattie, tra cui la zoppia e il «mal de piedra». La sua devozione alla Vergine della Fuensanta è espressa nella dedica, dove ringrazia la Vergine per la miracolosa guarigione dalle sue malattie.

L'opera, divisa in tre libri, si distingue per essere il primo studio sistematico sulle lenti correttive della vista. Il Libro Primo affronta l'anatomia e le proprietà degli occhi, discutendo le condizioni essenziali per una buona visione. Inoltre, classifica i difetti visivi in naturali e acquisiti. Il secondo libro, «De los remedios de la vista por medio de los antojos» (I rimedi per la vista attraverso gli occhiali), presenta dieci capitoli in cui Daza esplora la fabbricazione e le differenze tra occhiali concavi e convessi. Affronta anche l'ingrandimento e la riduzione delle immagini, nonché la gradazione degli occhiali seguendo una scala simile all'attuale diottria. Il Libro Terzo consiste in quattro dialoghi tra un malato, un ottico e un medico, in cui descrive casi clinici comuni nella determinazione delle lenti correttive. Spiega anche come operare la cataratta.

Sebbene l'opera di Daza passò inosservata ai suoi tempi, fu riscoperta nel 1901 dallo storico Von Rohr, che fece conoscere ad altri autori l'importanza del suo lavoro nel campo delle lenti correttive. Il suo contributo all'ottica e all'optometria è ora riconosciuto come una pietra miliare nell'evoluzione di questa scienza. Per questo motivo, l'Istituto di Ottica del CSIC è stato chiamato Istituto Daza de Valdés in suo onore.

L'autoreIgnacio del Villar

Università pubblica di Navarra.

Società degli scienziati cattolici di Spagna

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Evangelizzazione

Nella veglia, Lui: un racconto per San Giovanni della Croce

In concomitanza con la ricorrenza del mistico poeta universale, pubblichiamo un racconto per celebrarlo.

Guillermo Villa Trueba-14 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Quella notte, l'ombra non era altro che un traboccare della fiamma interiore. Fray Juan de la Cruz, avvolto nel saio che mitigava a malapena il freddo del convento, giaceva con gli occhi aperti come pozzi profondi nella sua cella ombrosa. Il sonno, quella clemenza dei corpi affaticati, lo aveva disdegnato con un'evasività quasi liturgica. Le pareti, di un bianco che evocava quello delle ossa, non offrivano altro conforto che il loro silenzio sepolcrale, e nemmeno lo scricchiolio del legno tarlato o il sussurro lontano di qualche fratello vegliando riuscivano a dissolvere l'intensità di quella veglia senza apparente scopo. Era come se l'anima, ansiosa di un Verbo che la facesse riversare, si rifiutasse di riposare sotto il dominio dei sensi.

In quell'ora sospesa in cui la carne non chiede nulla e il mondo sembra dimenticato di sé stesso, il frate rifletté - o forse ascoltò dentro di sé, come chi non ricorda se sta sognando o pregando - che la notte è più che assenza di sole: è presenza attiva dell'Amato. E quella riflessione fu un preludio sufficiente perché una leggera brezza si insinuasse attraverso la fessura della finestra, suggerendogli con eloquente sottigliezza che forse non era l'insonnia a tenerlo sveglio, che forse quel tremito, troppo sublime per essere definito indecente, era uno di quelli che nascono nel profondo dell'anima quando questa si sa guardata da Dio. Lì, nella nudità della sua piccola cella, senza altra luce che quella che gli ardeva nel petto, comprese che l'anima non dorme perché non vuole smettere di amare, e che ogni riposo che non proviene dall'Amato non è altro che un riposo menzognero.

I galli non avevano ancora rotto il silenzio dell'aria quando il cielo cominciò a squarciarsi in strisce di indaco. Fu allora che fra Juan si alzò e si sedette sul materasso come se aspettasse qualcuno. Non pregò con le parole, né con i pensieri: fu il suo veglio che si trasformò in preghiera. Il freddo della pietra gli attraversava i piedi, ma sul suo volto si leggeva una serenità che non era di questo mondo. E quando la notte volse al termine, con la timidezza di chi ha confessato un segreto, sussurrò con una voce che non voleva essere udita da nessuna anima del convento, ma che doveva essere fragore e gioia nella sala del trono dell'Agnello: “Chiamerò questa notte bellezza, perché in essa l'anima mi è diventata cielo”.

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Evangelizzazione

Christian Gálvez: “La mia conversione è iniziata con il modo in cui mia moglie mi ha amato”

Il famoso conduttore televisivo spagnolo Christian Gálvez racconta in un'intervista a Omnes il suo percorso di conversione, segnato dall'amore di sua moglie e da un viaggio a Gerusalemme.

Teresa Aguado Peña-14 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

Dietro il volto televisivo di Christian Gálvez si nasconde un appassionato di storia, letteratura e ricerca di significato. La carriera del presentatore e scrittore —con romanzi, saggi storici e letteratura per l'infanzia alle spalle— si è evoluta verso territori sempre più personali e profondi. Dopo aver esplorato il Rinascimento e l'Europa del XX secolo, negli ultimi anni si è avvicinato all'epoca di Gesù di Nazareth, raccontata nel suo libro Ti ho chiamato per nome (2024) e nel novembre 2025 ha pubblicato Luca, approfondendo così la figura dell'evangelista che secondo Christian mostra “un profilo di Gesù misericordioso, il Gesù della mia fede".

Non è un caso che Christian scriva sulle origini del cristianesimo, dato che ha vissuto una forte conversione. 

Dopo anni lontano dalla fede, il suo ritorno è iniziato grazie all'aiuto di sua moglie Patricia e si è consolidato durante un viaggio a Gerusalemme in cui, secondo quanto racconta, il Vangelo ha smesso di essere teoria per diventare un'esperienza viva. 

In questa intervista, Christian parla apertamente della sua conversione, di come ha ricostruito il suo rapporto con Dio fino a integrare la fede nella sua vita quotidiana e nel suo lavoro di comunicatore. 

Dopo tanti anni lontano dalla fede, come descriveresti il tuo processo di conversione e la tua apertura a Dio? È stato un percorso razionale, un cambiamento emotivo o spirituale?

—La mia conversione è stata un mix di tutte e tre le cose, ma soprattutto è stato un ritorno all'amore. Potrei dire che c'era una ragione, perché avevo bisogno di capire, e che c'era emozione, perché ci sono stati momenti che mi hanno travolto, ma se devo essere sincero, il mio processo di conversione è iniziato con il modo in cui mia moglie mi ha amato. La sua pazienza, il suo sguardo limpido, la sua capacità di accompagnarmi senza giudicarmi... tutto questo ha aperto dentro di me uno spazio che era chiuso da anni. Forse Dio si è servito di lei per toccare nuovamente la mia vita. Lo dico sempre, il mio incontro con la fede ha un nome proprio: Patricia.

Racconti che la tua fede è rinata a Gerusalemme. Cosa è successo lì che non era successo in altri viaggi o letture?

—Gerusalemme è stata molto importante perché lì tutto ha smesso di essere teoria ed è diventato realtà. Avevo passato anni a leggere, ricercare, studiare... persino a negare, ma a Gerusalemme il Vangelo ha smesso di essere un testo ed è diventato un volto. Quel viaggio è stato possibile solo perché ero già accompagnato da un amore che mi stava trasformando interiormente. Patricia mi ha aiutato a riconciliarmi con me stesso, con la mia storia, con i miei dubbi e con le mie paure. E quando si viaggia in Terra Santa con un cuore così, l'esperienza cambia. È stato lì che ho capito che la fede non è un concetto: è una Persona che ti guarda e ti ama.

Dici che da bambino eri credente. In che cosa differisce il Dio che adoravi da bambino dal Gesù a cui ti avvicini oggi? Che cosa è cambiato nel tuo modo di vedere Dio che ti ha invitato a seguirlo?

—Da bambino credevo quasi in modo naturale. La fede faceva parte dell'ambiente, della famiglia, della vita. Guardavo Dio come un padre lontano, protettivo, ma senza un rapporto personale. Era la fede innocente di chi non ha ancora fatto domande, ma non ha nemmeno subito grandi colpi.

Durante l'adolescenza e la prima giovinezza, Cavallo di Troia è entrato nella mia vita come un vero e proprio terremoto emotivo. Ha risvegliato in me qualcosa che era addormentato: la curiosità per la figura umana di Gesù. Benítez mi ha mostrato un Gesù vivo, vicino, profondamente umano. Questo interesse ha fatto crescere una fede più matura, più riflessiva, più intima rispetto a quella della mia infanzia.

Ma è arrivato un momento nella mia vita che ha oscurato tutto. Un momento molto difficile. Mentre preparavo un documentario sul turismo sessuale in Cambogia, sono stato testimone di una realtà brutale: bambini distrutti, vite spezzate, un male che non rientrava in nessuna categoria emotiva. Quello è stato, per me, una frattura spirituale.
Mi sono chiesto: come può Dio permettere tutto questo? E quell'impatto mi ha portato, poco a poco, quasi senza che me ne rendessi conto, a perdere la fede.

Ho smesso di pregare, ho smesso di cercare, ho smesso di credere. Sono rimasto con il silenzio, il dolore e molte domande. E poi, anni dopo, è apparso quello che io definisco il mio vero miracolo: mia moglie. Patricia non è arrivata per convincermi di nulla, né per farmi la predica, né per spingermi a credere di nuovo. È arrivata per amarmi. Per accompagnarmi senza giudicarmi. Per mostrarmi, con il suo modo di essere, il tipo di amore che non riuscivo più a trovare da nessuna parte. Ed è stato quell'amore che ha iniziato a ricostruirmi interiormente. Attraverso di lei mi sono riavvicinato a Gesù.

Cosa ha significato per te riconoscere pubblicamente di essere credente? Hai subito qualche forma di cancellazione o rifiuto sul lavoro o nella vita privata?

—Ammettere pubblicamente di essere credente è stato un atto di coerenza. Mi occupo di comunicazione; sarebbe assurdo nascondere qualcosa che oggi dà senso alla mia vita. Ci sono state critiche? Non molte. Qualche commento ironico o gesto strano? Sì, anche quelli. Ma non ho subito alcuna “cancellazione”, né sul lavoro né nella vita privata. E, sinceramente, anche se ci fosse stato un rifiuto, la pace interiore che mi dà vivere secondo ciò che considero vero compensa tutto. Inoltre, ho al mio fianco una donna che mi ricorda ogni giorno che l’amore e la fede non si nascondono, si vivono.

Il Gesù di Luca È un Gesù vicino, semplice e misericordioso con gli emarginati. Pensi che questo Gesù e il suo amore siano anch'essi dimenticati? Dopo aver incontrato il suo immenso amore, in che modo ti senti chiamato a farlo conoscere?

—Credo di sì, che quel Gesù a volte scompaia tra dibattiti e rumori che non hanno nulla a che vedere con Lui. Il Gesù di Luca È il Gesù che si avvicina, che tocca, che ascolta, che dignifica. Questo è il Gesù della mia fede. E io mi sento responsabile di mostrare un volto di Gesù che guarisce, che abbraccia, che perdona, perché condivido la visione di Luca. Il mio strumento? Quello che so fare: raccontare storie. Se i miei libri, i miei programmi o le mie interviste possono aiutare qualcuno a scoprire un Gesù vicino, allora la mia dedizione avrà avuto senso.

Parli dell'invisibilità di Luca. Di come egli si renda invisibile per lasciare spazio alla luce di Gesù. Come si vive questa tensione tra l'essere un volto noto e, allo stesso tempo, aspirare a quell'invisibilità interiore proposta da Luca?

Lucas mi ha insegnato qualcosa di fondamentale: non si tratta di scomparire, ma di diventare trasparenti. Quando le persone mi vedono, devono vedere anche, o soprattutto, ciò che mi muove dentro. E qui torno a mia moglie: lei mi aiuta a tenere i piedi per terra, a ricordare che non sono qui per brillare, ma per condividere. La cosa più grande che posso fare è che la luce non sia la mia, ma la nostra.

Hai ricevuto qualche messaggio o conosci qualche caso di persone che, sulla scia della tua opera o della tua storia personale, hanno intrapreso anch'esse un cammino di fede?

—Sì, e mi emozionano ogni volta che succede. Persone che mi dicono che, grazie a Ti ho chiamato per nome, o dopo aver ascoltato qualche intervista, si sono riavvicinati alla fede, hanno deciso di riconciliarsi con Dio o semplicemente hanno iniziato a porsi domande che avevano sepolto nel profondo. Queste storie mi commuovono profondamente. E sento che, in fondo, non è merito mio: se qualcosa tocca il cuore di qualcuno è perché prima ha toccato il mio.

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Evangelizzazione

Santa Lucia, giovane vergine e martire di Siracusa

Santa Lucia nacque alla fine del III secolo a Siracusa (Sicilia) ed è una delle martiri più venerate dell'antichità cristiana. Il suo martirio avvenne durante la persecuzione di Diocleziano, per aver mantenuto salda la fede. È patrona della vista e della cecità spirituale per via del suo nome, Lucia, derivato da lux (“luce”), e la liturgia la celebra il 13 dicembre.

Francisco Otamendi-13 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Il patrocinio della vista di Santa Lucia, giovane vergine e martire nata a Siracusa (Sicilia), deriva da lux (“luce”), simbolo cristiano per eccellenza, e il suo nome è menzionato nella Preghiera Eucaristica I del Canone della Messa insieme a Felicitas e Perpetua, Agata, (Lucia), Agnese, Cecilia, Anastasia”...

Lucia proveniva da una famiglia nobile di tradizione cristiana o almeno favorevole alla fede. Suo padre morì quando lei era ancora bambina, quindi rimase sotto la custodia di sua madre, Eutikia. La tradizione narra che Lucia offrì la sua verginità a Cristo, dedicandosi alla preghiera e alla carità.

Il suo martirio risale alla persecuzione di Diocleziano, intorno all'anno 304. Secondo i racconti agiografici, un giovane pagano che voleva sposarla la denunciò alle autorità quando scoprì la sua decisione. Lucia fu arrestata e le fu chiesto di rinunciare alla sua fede, ma lei rimase salda nella sua convinzione. Alla fine fu decapitata. Potete vedere qui con maggiore ampiezza tratti biografici 

Il viaggio a Catania e la guarigione di sua madre

Prima, nell'anno 301, racconta il giorni dei santi vaticani, Lucia e sua madre si recarono in pellegrinaggio a Catania per visitare la tomba di Sant'Agata, giovane martire di Catania, e chiederle la guarigione di Eutikia, che soffriva di emorragie e non migliorava. Giunte alle pendici dell'Etna, parteciparono alla celebrazione eucaristica e ascoltarono il racconto evangelico dell'emorroissa. 

Lucia chiese a sua madre di toccare con fiducia la tomba e sarebbe guarita (Passione di Santa Lucia). Madre e figlia si recarono alla tomba di Sant'Agata, che in sogno disse a Lucia: “La tua fede è stata di grande aiuto per tua madre, lei è già guarita”. Sant'Agata le disse che la città di Siracusa sarebbe stata preservata da lei, “perché è piaciuto a Nostro Signore Gesù Cristo che tu abbia conservato la tua verginità”. Quando riprese conoscenza, Lucia raccontò la visione a sua madre e le rivelò la sua intenzione di rinunciare a un marito terreno.

Potete vedere qui tratti biografici e devozione popolare a Santa Lucia.

L'autoreFrancisco Otamendi

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Libri

Diego Saavedra Fajardo, una vita a Roma

Pubblicata la migliore biografia su Diego Saavedra Fajardo (1584-1648), importante diplomatico spagnolo che prestò servizio soprattutto nell'ambito della Santa Sede.

José Carlos Martín de la Hoz-13 dicembre 2025-Tempo di lettura: 4 minuti

María Victoria López-Cordón Cortezo, docente di Storia Moderna all'Università Complutense di Madrid, ha appena aggiunto il suo nome e la sua carriera scientifica alla collezione “Españoles eminentes” (Spagnoli eminenti), che continua a crescere in intensità e ampiezza, poiché sono già dieci le grandi biografie pubblicate da Taurus con la Fondazione March, sotto la direzione di Ricardo García Cárcel e Juan Pablo Fusi e, naturalmente, Javier Gomá.

In questa occasione, abbiamo già a nostra disposizione la migliore biografia mai scritta su Diego Saavedra Fajardo (Algezares, Murcia 1584 – Madrid 1648), agente di Preces del re di Spagna presso la Santa Sede, segretario e collaboratore di cardinali, ambasciatori di Spagna e uomo di diplomazia sia a Madrid, Roma, Napoli, che nell'Europa centrale per poter svolgere compiti di coordinamento in un mondo molto complicato come quello che terminò con la Pace di Westfalia del 1648, data della sua morte.

È interessante questo secolo di consolidamento delle grandi monarchie europee dopo la debacle della frammentazione luterana di parte dell'Europa e la rottura del Regno Unito con la Santa Sede. 

L'influenza di Salamanca

Allo stesso tempo, non dimentichiamo che Diego Saavedra Fajardo aveva studiato a Salamanca. utriusque iuris e si era impregnato dello spirito della Scuola di Salamanca, poiché Vitoria, Soto e Cano non solo riuscirono a riformare e aggiornare la teologia che si riversò nelle sessioni del Concilio di Trento e nelle sue costituzioni dogmatiche, ma anche nelle grandi decisioni pastorali del Concilio, come la residenza episcopale, la costituzione dei seminari conciliari o la riforma della spiritualità che produsse una pléiade di santi in tutta l'Europa cattolica.

A Salamanca, Diego Saavedra Fajardo scoprì la dignità della persona umana sottolineata da Francisco de Vitoria e la sua applicazione al diritto delle genti, al diritto naturale, sia in ambito economico che giuridico.

Infine, non possiamo dimenticare che Diego de Covarrubias, discepolo di Vitoria e Martín de Azpilcueta, aveva lasciato la cattedra di Salamanca e l'Audiencia di Granada per diventare vescovo di Segovia e presidente del Consiglio di Castiglia.

Grande versatilità

La nomina di ecclesiastici, tonsurati solo nel caso di Saavedra Fajardo, ad alte cariche dell'amministrazione statale sviluppata da Filippo II, fu proseguita da Filippo III e Filippo IV, durante la vita e l'attività diplomatica del nostro umanista Saavedra.

Saavedra Fajardo era anche scrittore e poeta, come si evince dalle sue composizioni, che realizzava nel tempo libero e pubblicava periodicamente, ma soprattutto dai suoi rapporti, che presentava regolarmente sia alla Corte che alla Santa Sede, all'ambasciata di Spagna o alla segreteria del cardinale Borja, al quale servì fedelmente per tanti anni.

Diego Saavedra Fajardo era un rappresentante di “una generazione” che leggeva Tacito, Seneca e Machiavelli per conoscere il pensiero degli antichi sulla scienza politica e, naturalmente, Boccalini, Lipsio, Mazzarino, Quevedo e tanti altri contemporanei che stavano preparando il dispotismo illuminato dopo la fine delle guerre di religione.

Periodo preilluminista

Siamo nel periodo pre-illuminista europeo, che solitamente viene fatto coincidere con la morte di Cartesio nel 1650 e, quindi, con l'inizio del razionalismo e della sua critica alla filosofia realista che imperava in Europa e la sua conseguenza immediata, la sfiducia nella Chiesa e in Dio che si rafforzerà nel secolo dei Lumi.

Allo stesso modo, l'opera di Saavedra Fajardo sarà collegata alla fine delle guerre di religione, avvenuta con la pace di Westfalia del 1648, e alla rottura dell'unità della fede cristiana nel concerto delle nazioni.

All'interno di quel trattato di pace sarebbe stato incluso il trattato di Münster, dello stesso anno in cui la Spagna avrebbe riconosciuto l'indipendenza della Repubblica dei Paesi Bassi, che sarebbe poi diventata una potenza navale nel commercio con la Cina e il Giappone.

Non possiamo dimenticare che, dalla battaglia di Lepanto coordinata da Filippo II nel 1571, il pericolo ottomano si era allontanato e gli interessi europei erano più concentrati sul commercio con l'America e l'Asia che sulle tradizionali rotte del Mediterraneo.

Situazione della Spagna

Nel XVII secolo, la Spagna aveva perso parte del suo impero in Europa, nei Paesi Bassi e in Germania, ma rimaneva forte grazie al monopolio del commercio con l'America e le Filippine. La rivalità con la Francia continuava ad essere abituale e raggiunse un punto di distensione con la pace dei Pirenei (1659), che fornì una tregua economica a Luigi XIV, al suo reggente e a Mazzarino.

È vero che per Filippo II e i suoi successori la presenza della Spagna nel mondo significava servire la Chiesa cattolica e difendere la vera fede contro i riformati o gli infedeli.

È interessante notare come María Victoria López-Cordón Cortezo si sia soffermata a lungo sulla presenza delle opere di Tacito, il classico storico romano sostenitore dell'impero. Tacito rispettava la libertà dei sudditi e l'obbedienza alle leggi dell'impero romano e, nel frattempo, la Spagna desiderava essere una ferma difensore degli ideali dell'impero, della fede cristiana e del diritto romano.

A questo proposito, va sottolineato che le opere di Tacito furono pubblicate in quegli anni in tutte le principali lingue europee e lette e commentate in tutto il mondo cristiano. In particolare Lipsio (1547-1606), umanista fiammingo, quando si convertì al cattolicesimo promosse il popolo insieme al suo monarca, secondo i dettami della Pace di Westfalia del 1648 e gli echi classici dell'illustre Tacito. Dal classico latino prese il pragmatismo, l'analisi fredda e la ragion di Stato.

Infine, ricordiamo il lavoro di Boccalini (1556-1613) sui commenti a Tacito che circolavano in forma manoscritta, alcuni dei quali possono essere consultati presso la Biblioteca Nazionale di Spagna o nell'edizione stampata in italiano del 1677. Boccalini era molto critico nei confronti della Spagna, come ricorda María Victoria López-Cordón Cortezo, ma riconosceva la legalità della presenza spagnola a Milano e Napoli e, soprattutto, era favorevole all'unità della cristianità insieme al Romano Pontefice.

Diego Saavedra Fajardo

Autore: María Victoria López Cordón
Editoriale: Toro
Anno: 2025
Numero di pagine: 656

Il calcio nel sedere all'elfo dispettoso

Se vedete comparire nella vostra casa un elfo dispettoso, non lasciategli fare nulla nemmeno per una sola notte. Dategli, da parte mia, un calcio nel sedere che lo faccia volare di nuovo sulla slitta di Babbo Natale e che, con lui, viaggi fino alla fredda e sgradevole Lapponia per poter continuare lì a dare fastidio ai suoi simili.

12 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Ricordate quando, solo pochi anni fa, Halloween era solo una curiosa festa anglosassone che guardavamo pensando che non sarebbe mai arrivata da noi? Beh, state attenti, perché è già arrivata la nuova usanza importata che sostituirà le nostre tradizioni: l'elfo dispettoso.

Forse non ne conosce ancora l'esistenza, ma dall'inizio dell'Avvento i social network si sono riempiti delle marachelle che gli elfi birichini hanno combinato ogni notte in tutte quelle case che hanno aperto loro le porte. 

L'origine di questa recente tradizione – paradossale a dir poco – risale alla pubblicazione, vent'anni fa, del libro “The Elf on the Shelf” (L'elfo sullo scaffale), una storia che racconta di un elfo domestico inviato da Babbo Natale per sorvegliare il comportamento dei bambini e riferirglielo ogni sera. Il suo passatempo principale, tuttavia, è quello di combinare scherzi notturni, spostandosi da un posto all'altro e creando così aspettativa nei bambini, che ogni mattina devono trovarlo e scoprire le sue malefatte, senza mai toccarlo per non fargli perdere la sua magia. La storia diventa realtà in migliaia di case, ogni giorno, grazie alla complicità dei genitori e al basso prezzo del pupazzo, che può essere acquistato per pochi euro in qualsiasi negozio cinese o digitale.

Gli insegnanti dicono che i bambini non parlano d'altro durante la ricreazione: 

–Che birichinata ha combinato oggi il tuo Elfo?

–Il mio ha cosparso di farina il piano di lavoro della cucina e si è sdraiato sopra facendo la figura di un angelo come si fa sulla neve. Come ha sporcato tutto! E il tuo?

–Beh, il mio oggi ha smistato tutti i calzini nel mio cassetto, ma ieri ha disegnato delle faccine con un pennarello sulle uova che erano nel frigorifero. Che divertente!

Dal 1° dicembre fino alla vigilia di Natale, ogni sera, il pupazzo appare in un posto diverso della casa lasciando il segno sotto forma di scherzo, per la gioia dei bambini e, soprattutto, degli adulti che si divertono a spese dell'innocenza dei propri figli. Ed ecco il problema, perché non so se anche a voi è successo quello che è successo a me ad Halloween. Alla vigilia di Ognissanti mi sono imbattuto in gruppi di bambini accompagnati dai genitori che giravano per il quartiere a chiedere caramelle. I bambini, travestiti da morti e con facce da morti; e i genitori, con un sorriso da un orecchio all'altro nel vedere quanto fossero terrificanti e divertenti i loro figli per strada. Il fatto è che sono stati pochi i vicini che hanno risposto con caramelle alla domanda “Dolcetto o scherzetto?” che gli veniva rivolta dalla santa compagnia. halloweenense, con grande disappunto dei bambini ai quali i genitori avevano assicurato che quel giorno tutti i negozianti e i vicini sarebbero stati generosi e avrebbero regalato loro tonnellate di caramelle. Ma non è nostra abitudine! Almeno, non ancora. 

Infatti, se c'è una cosa fondamentale nelle tradizioni è il consenso che permette di mettere d'accordo tutta la comunità adulta e, dato che si tratta di un'usanza relativamente nuova importata da altri paesi dove invece c'è consenso quella notte, succede quello che succede. Se non giochiamo tutti, si perde il divertimento.

L'irruzione dell'elfo domestico, derivata dalla tradizione importata di Babbo Natale, di cui il personaggio magico è collaboratore, ha un chiaro obiettivo offensivo contro la nostra tradizione dei Re Magi. Viene a rompere “il patto” che rende possibile la sua magia e a confondere i più piccoli. Non si tratta di fare una guerra di tradizioni, ma di sapere chi siamo e di metterci d'accordo. Non si tratta di aggrapparci a posizioni immobiliste ancorate al passato, ma di dare ai nostri figli una base solida su cui costruire la loro personalità. Senza rispettare le tradizioni o, peggio ancora, seguendo la tradizione del primo che bussa alla porta del nostro Tiktok, lasciamo i bambini indifesi di fronte ai venti che soffiano più forti e li priviamo di un'eredità millenaria custodita dai genitori di generazione in generazione. Un'eredità che ci permette di conoscerci e di identificarci con il nostro popolo, con la nostra comunità più vicina. Rompendo le tradizioni che ci uniscono, diventiamo sempre più deboli.  

Quanta complicità, quanto consenso per organizzare le cavalcate dei Re Magi e tutto ciò che riguarda quella notte, perché ora arrivino quattro influencer desiderosi di protagonismo a prendersi lo scattergories e rovinarci la partita!

Quindi, a rischio di essere accusato di incitare alla violenza in questo periodo così speciale, permettetemi di consigliarvi che, se vedete comparire a casa vostra un elfo dispettoso, non lasciatelo agire nemmeno per una sola notte. Dategli, da parte mia, un calcio nel sedere che lo faccia volare di nuovo sulla slitta di Babbo Natale e che, con lui, viaggi fino alla fredda e sgradevole Lapponia per poter continuare a dare fastidio ai suoi simili.

L'autoreAntonio Moreno

Giornalista. Laurea in Scienze della Comunicazione e laurea in Scienze Religiose. Lavora nella Delegazione diocesana dei media di Malaga. I suoi numerosi "thread" su Twitter sulla fede e sulla vita quotidiana sono molto popolari.

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Vaticano

León XIV rivendica l'archeologia come “scuola di incarnazione”

In occasione del centenario della fondazione del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Papa Leone XIV ha condiviso alcune riflessioni sull'archeologia cristiana, che considera importanti per il cammino della Chiesa nei tempi attuali.  

Rafael Sanz Carrera-12 dicembre 2025-Tempo di lettura: 4 minuti

In una profonda riflessione che segna il centenario del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, Papa Leone XIV ha pubblicato una Lettera apostolica che riposiziona l'archeologia cristiana come disciplina essenziale per comprendere la fede e la missione evangelizzatrice della Chiesa nel XXI secolo.

Un centenario che unisce due giubilei di speranza

Il lettera, datata 11 dicembre 2025, stabilisce un significativo parallelismo tra il ’Giubileo della pace’ del 1925 - indetto dopo le ferite della prima guerra mondiale - e l'attuale Giubileo, che cerca di “offrire orizzonti di speranza all'umanità, afflitta da numerose guerre”.

León XIV sottolinea che l'archeologia “è una componente indispensabile dell'interpretazione del cristianesimo e, di conseguenza, della formazione catechetica e teologica”, allontanandosi dalla percezione di essere “solo una disciplina specialistica, riservata a pochi esperti”.

Nove frammenti ossei, che si ritiene appartengano a San Pietro, riposano all'interno di un reliquiario venerato dal patriarca ortodosso Bartolomeo di Costantinopoli, dopo essere stati donati da Papa Francesco. Foto scattata il 30 giugno 2019 (@CNS/per gentile concessione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli).

L'archeologia come “teologia dei sensi”

Uno dei concetti più innovativi della lettera è la definizione dell'archeologia cristiana come una “teologia dei sensi”, che “educa a questa sensibilità” e “insegna che nulla di ciò che è stato toccato dalla fede è insignificante”.

“Non si può comprendere appieno la teologia cristiana senza comprendere i luoghi e le tracce materiali che testimoniano la fede dei primi secoli”, afferma il Pontefice, citando le parole dell'evangelista Giovanni: “Ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e ciò che abbiamo toccato con le nostre mani riguardo al Verbo della Vita”.

Cambiamento paradigmatico

Mi sembra che questa sia l'idea più rivoluzionaria e trascendentale della lettera apostolica di Leone XIV: il concetto dell'archeologia cristiana come “scuola di incarnazione” e “teologia dei sensi”. Si propone un cambiamento paradigmatico nel modo di intendere la conoscenza teologica. 

Tradizionalmente, l'archeologia è stata considerata una disciplina ausiliaria, utile ma non essenziale. Il Papa, in questo documento, la eleva al rango di componente indispensabile dell'interpretazione del cristianesimo, equiparandola per importanza alla Scrittura e alla Tradizione.

Una risposta alla cultura dello scarto

In un mondo in cui “l'uso e il consumo hanno prevalso sulla conservazione e sul rispetto”, Leone XIV presenta l'archeologia come «una scuola di sostenibilità culturale ed ecologia spirituale“. Il Papa sottolinea che questa disciplina insegna che ”anche la più piccola testimonianza merita attenzione», in contrasto con la tendenza contemporanea allo scarto.

“L'archeologo non scarta nulla, ma conserva. Non consuma, ma contempla. Non distrugge, ma decifra”, spiega, definendo questo sguardo “paziente, preciso, rispettoso”, capace di cogliere “in un frammento di ceramica, in una moneta corrosa o in un'incisione consumata, il respiro di un'epoca, il senso di una fede e il silenzio di una preghiera”.

Antico sarcofago in marmo esposto in un museo della ricostruita Basilica di San Silvestro del IV secolo, sopra le Catacombe di Priscilla a Roma, il 20 novembre 2013. (Foto CNS/Paul Haring).

Strumento per l'evangelizzazione

León XIV collega l'archeologia cristiana alla missione evangelizzatrice verso le periferie, sia geografiche che esistenziali. La disciplina può essere “un potente strumento di dialogo”, che contribuisce a “gettare ponti tra mondi lontani, tra culture diverse, tra generazioni”.

Il Papa cita le parole di Francesco sulle catacombe, dove “tutto parla di speranza”, ricordando che questi luoghi antichi continuano a essere testimonianza viva del fatto che “Dio era realmente entrato nella storia e che la fede non era una filosofia, ma un cammino concreto nella carne del mondo”.

Un appello alla formazione accademica

La lettera rivolge un appello specifico ai vescovi e ai responsabili della cultura e dell'istruzione affinché “incoraggino i giovani, i laici e i sacerdoti a studiare archeologia”, sottolineando le “numerose prospettive formative e professionali” che essa offre.

León XIV sottolinea anche l'importanza della collaborazione tra le diverse istituzioni vaticane dedicate all'archeologia: “La Pontificia Accademia Romana di Archeologia, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, la Pontificia Accademia Cultorum Martyrum, il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana: ciascuna con la propria specificità, tutte condividono la stessa missione”.

L'archeologia come “memoria vivente”

Il documento si conclude con una riflessione sul ruolo della memoria in tempi di rapidi cambiamenti. “La vera archeologia cristiana non è sterile conservazione, ma memoria viva”, afferma Leone XIV. “È la capacità di far parlare il passato al presente. È saggezza nel discernere ciò che lo Spirito Santo ha suscitato nella storia”.

Per il Pontefice, chi conosce la propria storia «sa chi è, sa dove andare, sa di chi è figlio e a quale speranza è chiamato”. In questo senso, l'archeologia cristiana diventa “un ministero di speranza” che mostra come “il Vangelo abbia sempre avuto una forza generativa».»

Un'eredità per il futuro

Con questa lettera apostolica, Leone XIV non solo celebra il centenario di un'istituzione, ma ridefinisce il ruolo dell'archeologia cristiana nel mondo contemporaneo. La disciplina emerge non come un esercizio nostalgico, ma come uno strumento vivo per la comprensione della fede, la formazione teologica e la missione evangelizzatrice della Chiesa nel XXI secolo.

La lettera si conclude con una benedizione che racchiude lo spirito del documento: “Che la luce dello Spirito Santo, memoria viva e creatività inesauribile, vi ispiri. E che la Vergine Maria, che ha saputo meditare tutto nel suo cuore, unendo il passato e il futuro nello sguardo della fede, vi protegga”.

L'autoreRafael Sanz Carrera

Dottore in Diritto Canonico

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Cultura

Bernarda Brunović, la cantante cieca e pro-vita che ha commosso il pubblico di ‘The Voice of Germany’

Bernarda Brunović, la cantante svizzera di origini croate nata cieca, la cui storia ha commosso il pubblico, ieri ha fatto vibrare il pubblico alla finale della stagione 15 di ‘The Voice of Germany’ (‘La voce della Germania’), che ha vinto Anne Mosters. Brunović è nota per il suo impegno a favore della causa pro-vita e per la sua religiosità.

Javier García-Herrería / Francisco Otamendi-12 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

La cantante e compositrice svizzero-croata Bernarda Brunović, che ha ispirato molte persone con la sua carriera, il suo talento musicale e la sua ferma posizione etica, ieri sera ha emozionato il pubblico nella finale di ‘The Voice of Germany’, vinta da Anne Mosters.

Nata l'11 novembre 1993 a Dietikon, in Svizzera, e conosciuta artisticamente anche come Bernarda o, in precedenza, come Bernarda Bruno, la carriera di Bernarda Brunovic combina la musica con un messaggio di dignità umana e impegno verso la vita. 

Nonostante le difficoltà e le polemiche suscitate dal suo attivismo pro-vita, Brunović è riuscito ad arrivare alle ultime fasi del concorso musicale.

Origini familiari e nascita

Bernarda è nata cieca a causa di un glaucoma congenito, una malattia che compromette la vista e che nel suo caso le ha impedito di sviluppare la vista. 

Secondo diverse fonti, i medici che hanno assistito i suoi genitori hanno affermato che la cosa più prudente da fare, date le difficoltà previste nel crescere un figlio con una grave disabilità, sarebbe stata interrompere la gravidanza e abortire. Tuttavia, sua madre ha deciso di non abortire. Lei ha espresso pubblicamente la sua gratitudine ai genitori per quella decisione, che ha segnato sia il suo percorso personale che il suo attivismo in difesa della vita. 

Formazione, fede

La sua famiglia è cattolica praticante e Bernarda ha affermato di essere cresciuta in un ambiente di fede che l'ha profondamente segnata fin dall'infanzia. Secondo alcune interviste raccolte dai media svizzeri, la sua esperienza con la fede cristiana, in particolare con il cattolicesimo, è stata fonte di forza spirituale e motivazione artistica.

Bernarda non ha dedicato la sua vita solo alla musica, ma anche alla teologia e alla filosofia. Secondo diverse fonti, ha studiato queste discipline, il che riflette non solo un impegno artistico, ma anche una profonda ricerca di senso che si collega alla sua fede. 

Carriera musicale

Fin da giovane ha mostrato interesse per la musica. Ha iniziato a partecipare a concorsi e progetti musicali a partire dal 2010, compresi diversi tentativi di rappresentare la Svizzera all'Eurovision Song Contest. Nel 2011 ha partecipato alle selezioni nazionali svizzere per l'Eurovision e negli anni successivi si è esibito più volte al “Dora”, la selezione croata per l'Eurovision, con diverse canzoni. 

Bernarda mescola generi come soul, gospel, blues, funk e jazz, stili che utilizza non solo per intrattenere, ma anche per trasmettere emozioni. E così racconta storie di fede, speranza e lotta interiore, come sta diventando frequente tra i cantanti famosi in questa stagione.

Una carriera segnata da ‘The Voice of Germany’

Una delle sue esperienze professionali più note è la partecipazione a The Voice of Germany (La voce di Germania). Bernarda ha già gareggiato nel 2018, arrivando fino alla semifinale di quell'edizione del programma, che l'ha resa più famosa.

Nel 2025 ha partecipato nuovamente alla quindicesima stagione del popolare talent show musicale, questa volta con una maggiore maturità artistica. La sua voce e la sua presenza sul palco hanno impressionato sia i coach che il pubblico. Ad esempio, nelle recenti esibizioni ha interpretato brani come “Rise Up” di Andra Day e la sua versione di altri classici, che l'hanno aiutata a superare le diverse fasi del concorso.

Bernarda è riuscita a qualificarsi per la finale di The Voice of Germany 2025, un risultato che molti considerano storico. 

Attivismo pro-vita e polemica pubblica

Come riportato, oltre che per la sua musica, Bernarda è nota per il suo attivismo in difesa del diritto alla vita. Ha partecipato a eventi come il Marsch fürs Läbe (Marcia per la Vita) in Svizzera, una manifestazione annuale che riunisce persone e organizzazioni che difendono politiche a favore della vita dal concepimento. In queste manifestazioni ha cantato ed espresso la sua convinzione che “ogni vita umana ha un valore intrinseco”. 

La sua posizione pro-vita non è stata esente da polemiche. Nel 2025, la cantante è stata invitata a partecipare al festival M4Music di Zurigo. Ma il suo concerto è stato cancellato dagli organizzatori, che hanno citato preoccupazioni di sicurezza derivanti da proteste e minacce da parte di gruppi contrari al suo attivismo. 

Secondo diversi media, la partecipazione di Bernarda alla Marcia per la Vita e altre dichiarazioni pubbliche sul valore di ogni vita umana avrebbero scatenato le critiche e le pressioni sociali che hanno portato alla sua uscita dal programma. 

Risposta di Bernarda Brunović: rispetto  

In risposta ad alcune critiche, Bernarda ha pubblicato dei messaggi sui social network ribadendo che la sua voce e la sua musica non sarebbero state messe a tacere, sottolineando che rispetta tutte le persone indipendentemente dalle loro convinzioni, ma che ha anche il diritto di esprimere le proprie.

Bernarda Brunović ha dichiarato testualmente, secondo quanto riportato da Live Action News: ‘Negli ultimi giorni, la gente ha parlato di me, ma non con me. Sono stata cancellata, esclusa, messa da parte, trattata come un pericolo per la società, come una rovina per la reputazione di altre persone. Non solo sono stata cancellata dal palco dell'M4Music, ma mi è stato anche proibito di salire su altri palchi’.

E ha aggiunto: “Sono un'artista, una musicista che ama la vita. Amo e rispetto tutte le persone, indipendentemente dal loro credo, nazionalità, etnia, razza, orientamento sessuale o politico, qualsiasi cosa. Tutti hanno diritto alle proprie opinioni o credenze, e anch'io ho diritto alle mie”. “Potete provare a cancellarmi, potete rifiutarvi di ascoltarmi, ma non mi toglierete mai la mia voce”.

L'autoreJavier García-Herrería / Francisco Otamendi

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Vocazioni

Dal reggaeton alla consacrazione della propria vita a Dio: la conversione di Belén Ayuso

Belén Ayuso cantava testi reggaeton che erano totalmente contrari a Dio. Dopo aver attraversato un periodo di depressione e ansia, si è arresa al Signore e ha vissuto una forte conversione. Ora si dedica alla musica pop cristiana.

Teresa Aguado Peña-12 dicembre 2025-Tempo di lettura: 6 minuti

Belén Ayuso è una cantante di musica cristiana che ha vissuto un miracolo nella sua vita grazie a Dio. Prima cantava reggaeton con testi completamente contrari alla parola di Dio, ma una malattia - che lei considera una benedizione - l'ha costretta a fermarsi e a rendersi conto che, sebbene amasse la musica, non era in sintonia né con il Signore né con se stessa. Cercando di accontentare tutti, si è persa fino a cadere in una profonda depressione e in un'ansia cronica. Quando né gli psicologi, né gli psichiatri, né la sua famiglia o i suoi amici sono riusciti ad aiutarla, ha deciso di rivolgersi a Dio, arrendersi a Lui e chiedergli la guarigione, promettendogli di dedicargli la sua vita e la sua voce.

Oggi parliamo con una Belén felice, grata e pienamente dedita al suo proposito di cantare per il Signore.

Quali miracoli concreti diresti che ha compiuto in te? 

–Uno di questi è la guarigione. Mi ha guarito dalla depressione e dall'ansia. Qualcosa che in quel momento credevo impossibile, perché sopravvivevo in uno stato dal quale non riuscivo a uscire.

Un altro miracolo è la liberazione. Dio mi ha purificata, mi ha trasformata in una persona completamente diversa da quella che ero prima. Questo processo di liberazione è molto doloroso, perché Dio elimina quelle parti di te che hai costruito a causa delle ferite e delle delusioni.

Il miracolo è che Dio ti renda una nuova creatura. La nuova creatura in Cristo è ciò che Lui vuole da te e per te. La liberazione è felicità.

E questi sono i due miracoli che ritengo Dio abbia compiuto per me. 

Potresti spiegare com'è questa nuova creatura? In che modo Dio vuole fare qualcosa di nuovo in te? 

–Io dico sempre che la sofferenza ti fa progredire e Dio la usa proprio per questo. Perché se tutto fosse sempre come vogliamo noi, non guarderemmo mai a Dio.

Quella solitudine, quella sofferenza, quel vuoto mi hanno spinto a rivolgermi al Signore. È molto importante capire che le sofferenze non uccidono i cristiani, ma che noi rinasciamo attraverso i processi.

Sei grato per quella sofferenza? 

–Assolutamente. Ecco perché dico sempre: Dio mi ha benedetto con una malattia. Che frase, eh? Ma è la realtà, perché so che se non avessi vissuto quella sofferenza, non mi sarei mai rivolto a Dio.

Ho visto un video in cui dici: «La mia famiglia pensava che fossi impazzita». Ti converti e cambi radicalmente la tua vita. Come introduci questa conversione nella tua cerchia?

–Sono passata dal cantare reggaeton all'avere improvvisamente quella chiamata di Dio. Quando mi ha guarita, gli ho detto: mi affido a te, ti devo tutto. Quando ho raccontato loro quello che mi era successo, la chiamata che avevo ricevuto dal Signore, i miei genitori hanno pensato che fossi letteralmente impazzita.

I miei genitori, che sono sempre stati cristiani, non erano d'accordo sul fatto che cantassi reggaeton e quel tipo di testi, perché le mie parole erano un'apologia delle droghe, dell'alcol, della lussuria, dell'infedeltà, di tutto ciò che va contro Dio. Tuttavia, per loro è stata una sorpresa assoluta, così come lo è stata per me, perché quattro anni fa non avrei mai pensato di cantare per Dio.

È stata una luce per tutti. È cambiato anche il rapporto con i miei genitori, con i miei figli, il modo in cui provo sentimenti, amo, vedo le persone, persino il modo in cui vedo me stessa, perché alla fine è Dio che ti dà questa identità. È stata un'esperienza molto bella per tutti.

È vero che è stato un po' difficile, perché all'inizio non capivano, ma è stato un altro miracolo che ha risolto la situazione a casa. 

Che risposta hai ricevuto quando hai iniziato a fare musica cristiana? 

–È stato difficile non solo per la musica, ma anche perché in generale Dio mi ha tolto delle cose e ha ripulito la mia vita in modo radicale, sia le amicizie che le relazioni di coppia molto tossiche, così come il rapporto che avevo con me stessa.

È vero che per me è stato un cambiamento radicale nel mio ambiente, ma ne sono molto grata. Credo che nel mondo in cui viviamo oggi, dove c'è tanta sofferenza, tanta ansia, tanta mancanza di autostima, tutti vogliamo raccontare le cose belle che ci capitano, i nostri successi, le nostre vittorie, ma in realtà il mondo reclama autenticità. Le persone vogliono vedere gente vera, con problemi, con difetti.

Per questo mi mostro così come sono, perché sono stanca di vedere sempre persone a cui va tutto alla grande. È una bugia. Tutti abbiamo dei problemi, dei fardelli da portare, ed è così, ed è giusto che sia così.

Parli di come il peccato ti rendesse sporca nonostante avessi incontrato Dio e sapessi che Lui ti perdonava. Come hai vissuto la scoperta della confessione? 

–Se devo essere sincera, fin da piccola mi succede una cosa. Quando entravo nel confessionale da bambina, mi veniva sempre le vertigini.

È una questione mentale. Appena entravo mi veniva subito le vertigini, mi hanno persino dovuto portare fuori e mettermi le gambe in alto, perché era una cosa che non riuscivo a fare fin da piccola.

In quel periodo, la mia amica Aisha, che canta anche lei musica cattolica, mi diceva: «Belén, devi confessarti». E io le rispondevo: «Sorella, non posso». Allora mi disse: «Belén, pregherò per te affinché Gesù ti accompagni in quella confessione e tu possa davvero confessarti». Quel giorno entrai con una serenità che non mi aspettavo.

Sono riuscito a liberarmi di tutti i peccati che portavo con me, di quella sporcizia fatale. E dopo quella confessione mi sono sentito come se mi fossi tolto 20 anni di peso dalle spalle. Ho trovato la pace.

Ci sono molte persone che raggiungono la fede in modo molto bizzarro e molto emotivo. Cosa diresti alle persone che vogliono incontrare Dio ma non lo vedono così chiaramente?.

–Direi loro che il cammino con Gesù, il cammino con Dio, è il cammino della pace, dell'amore e della liberazione. Una persona che desidera incontrare Dio ma non prova, come dici tu, quel sentimento, deve solo chiederlo a Dio. Pregare e dirgli: «Signore, desidero incontrarti, desidero credere in Te, aumenta la mia fede».

Sono una donna di grande fede, ma spesso mi capita anche di avere momenti di scarsa fede. Succede a tutti, tutti abbiamo delle crisi. Ma è importante parlarne con il Signore e chiedergli quella fede di cui abbiamo tanto bisogno.

C'è una cosa che noi giovani chiamiamo ‘demoni’. Sono ‘flashback’ di qualcosa che non ti piace di te stesso o un peccato che ti perseguita e che alla fine si traduce in rimorsi. Come fai a superare questi ‘demoni’? 

–Bisogna essere chiari sul fatto che queste cose provengono dal nemico. Il diavolo non può sapere cosa pensi. Solo Dio può farlo. Ma quello che può fare è metterti quei pensieri in testa. E noi dobbiamo respingerli. Tu sai cosa pensa Dio di te, quanto Dio ti ama e cosa sei per Dio.

Sai cosa mi succedeva spesso da piccola? Quando recitavo il Padre Nostro, a volte mi veniva in mente il pensiero «viva il diavolo!». E mi chiedevo perché mi succedesse. Questi sono pensieri intrusivi e Dio sa perfettamente che non provengono da te. Quindi è importante avere la tranquillità che Dio sa perfettamente che tu lo ami e che sei della luce.

Parli dell'importanza della parola di Dio. In che modo la tua musica si ispira ad essa? 

–La mia musica è sempre ispirata alla parola di Dio. È vero che sono una persona a cui piace esprimere molto ciò che provo nei confronti di Dio, o anche a volte quando non sento Dio, perché spesso abbiamo quella sensazione di «Dio non mi ascolta, Dio non è con me», che è una bugia, perché Dio è sempre presente. Ma a me piace essere molto realista.

Non posso salire su un palco e predicare ciò in cui credo, ciò che provo. Per me la parola di Dio è legge. Quindi agisco in base alla parola di Dio.

Hai qualche rituale che segui quando inizi a scrivere le tue canzoni?

–Recito sempre una preghiera: «Signore, realizza ciò che vuoi che io realizzi. Che questo serva come strumento per la liberazione dei miei fratelli».

Perché faccio musica per servire e aiutare le persone che si sentono perse a trovare la luce, così come io mi sentivo persa e l'ho trovata. Per me, questo è lo scopo che Dio ha per me e lotterò fino alla fine per raggiungerlo. Prego sempre per questo, affinché possa realizzarsi, affinché io possa aiutare altre persone e lodare Dio, che ovviamente amo.

Quali sono i pilastri che ti aiutano a portare avanti la tua fede?

–La confessione per me è fondamentale. Non appena comincio a peccare e non mi confesso, tutto va sempre peggiorando.

Per me la confessione è una liberazione spirituale. Quando sei perdonato dal Signore durante una confessione, quei demoni non possono più attaccarti perché un demone non può biasimarti per qualcosa che Dio ti ha già perdonato. La confessione è andata molto perduta perché le persone hanno remore a confessarsi e non sanno davvero cosa si stanno perdendo.

Allo stesso modo, anche l'Eucaristia, la preghiera e il digiuno mi aiutano molto.

In che modo Dio ti aiuta a perdonare? Come lo vedi concretamente nella tua vita? 

–Sai cosa succede? Sono stata perdonata molto.

Il mio sacerdote Guillermo me lo dice. Io perdono sempre e perdono tutto. A volte lascio persino che abusino di me. E non capivo perché mi succedesse questo. Allora lui mi ha detto: «Belén, perché sei stata perdonata moltissimo». Il perdono è qualcosa che Dio mi ha integrato profondamente proprio perché ho sperimentato tante volte di essere perdonata.

Hai qualche messaggio che vorresti trasmettere ai nostri lettori?

–Vorrei rivolgere un messaggio ai giovani.

Mi piacerebbe che poteste davvero guardare a Dio. Che sapeste che non avete bisogno di alcuna approvazione dal mondo, perché il mondo ha sacrificato l'uomo più buono e più perfetto di questo mondo, perché nemmeno per il mondo era abbastanza.

Che si concentrino sul Signore, sull'avere quel rapporto. Dio vi rivelerà il suo disegno. Tutti noi siamo venuti al mondo con uno scopo. Nessuna esistenza è casuale.

Dio ha uno scopo per ciascuno di noi. E nel momento in cui lo guarderai e avrai quel rapporto con Dio, Lui te lo rivelerà.

Questo è il messaggio che vorrei trasmettere. Che siete molto amati. 

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Evangelizzazione

Messico, nascita di una nazione: il sacro e la civiltà

In Messico c'è un detto molto comune: un messicano può non essere cristiano, ma è guadalupano.

Gerardo Ferrara-12 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

Rudolf Otto, grande studioso del fenomeno religioso — così come altri esperti quali Eliade, Durkheim e Voegelin — ritiene che il sacro sia l'origine stessa delle civiltà, perché dà forma allo spazio (da «káos» a «kósmos»), regola il tempo, legittima il potere politico (si pensi alla figura del sovrano sacro nelle civiltà antiche e moderne) e fonda l'etica e i simboli.

La civiltà, in pratica, nasce quando l’uomo riconosce uno spazio, un tempo e un ordine sacro.

Otto definisce il sacro come «numinoso»: un'esperienza emotiva primaria che affascina l'uomo, che lo cattura letteralmente. Mircea Eliade, sviluppando questa intuizione, aveva dimostrato che il sacro non solo si manifesta («ierofania»), ma fonda uno spazio ordinato, un mondo, separandolo proprio dal caos. E il centro di questo spazio ordinato è un «axis mundi», dove il divino irrompe aprendo una comunicazione tra il cielo, la terra e il mondo dei morti.

Spesso pensiamo che questo valga solo per le società “religiose”, ma nei nostri laicissimi Paesi occidentali vi sono degli axis mundi completamente staccati dal concetto “religioso”, eppure rivestiti di un’aura di sacralità, come l’Altare della Patria a Roma, concepito come axis mundi “laico” del nuovo Stato italiano, alternativa civile all’asse sacro rappresentato da San Pietro.

I Mexica e il loro mondo

Spesso noi europei siamo stati vittime di una mentalità da molti definita “eurocentrica”: pronta a bollare altre civiltà come barbare senza volerne approfondire e conoscere le storie e le culture. Ed effettivamente, prima della “scoperta” dell’America, il Messico precolombiano era una realtà complessa, mosaico di popoli, città-Stato, imperi e sistemi religiosi interconnessi, legati da alleanze, rivalità e reti commerciali.

I tlaxcaltechi, ad esempio, erano una confederazione nemica degli aztechi (pur avendo un sistema politico e religioso affine). C’erano poi i mixtechi e gli zapotechi; i purépecha del Michoacán, e i maya, eredi di una civiltà millenaria. Pur senza unità politica, questi popoli condividevano una medesima matrice simbolica: una visione sacra, ciclica e profondamente relazionale del cosmo.

Il più potente e avanzato di questi popoli era, all'epoca del fenomeno di Guadalupe (1531), quello comunemente noto come «azteco» (da Aztlán, la loro mitica città d'origine), ma che si definiva mexica (pronunciato «meshica»), da cui deriva il toponimo Messico.

I Mexica parlavano la lingua «nahuatl» e avevano creato un impero con capitale («axis mundi») nella famosa Tenochtitlán, fondata miticamente nel luogo indicato da un'aquila e un serpente («ierofania»). Tenochtitlán sorgeva su un'isola del lago Texcoco e era strutturata in forma sociale, gerarchica e religiosa. Al suo centro, nel Tempio Maggiore, sorgevano due santuari gemelli dedicati alle due polarità divine: Tlaloc, signore dell'acqua e della fertilità, e Huitzilopochtli, dio solare e guerriero (c'erano anche altre «divinità», come Quetzalcóatl, serpente piumato legato alla saggezza e alla creazione).

Il rapporto con il sacro era rigidamente scandito da calendari sacri, astrologia, poesia, danza rituale, architettura orientata astronomicamente.

I mexica praticavano sacrifici umani per mantenere l’equilibrio cosmico e nutrire gli dèi, soprattutto Huitzilopochtli, il Sole. Nella loro cultura, infatti, Huitzilopochtli aveva bisogno di sangue ed energia vitale per sorgere ogni giorno. Il sacrificio al dio del sole Huitzilopochtli consisteva nell’estrazione del cuore ancora pulsante in cima al Templo Mayor di Tenochtitlan. Le vittime erano spesso prigionieri di guerra, procurati mediante apposite campagne (a Tlaloc, dio della pioggia, si sacrificavano invece bambini in tempo di siccità).

Politeismo?

I popoli mesoamericani non erano politeisti in senso stretto, ma piuttosto monisti. La loro complessa cultura religiosa considerava gli dei non come figure autonome, ma come emanazioni di un'unica energia divina («teotl») che era alla base di tutto. In pratica, credevano in un unico Dio che aveva molte manifestazioni e altrettanti modi di riferirsi a lui.

Quando però parlavano della Divinità in generale, i mexica usavano solo termini come Tloque in Nahuaque, “Signore di ciò che è vicino e di ciò che è lontano”, Ipalnemohuani, “Colui per il quale si vive”, o Teyocoyani, “Colui che forma e plasma”. Questo concetto è importantissimo e la chiave per comprendere come mai il fenomeno Guadalupe attecchì tanto nell’immaginario collettivo mexica.

E nel momento in cui la Vergine di Guadalupe si definì «Nicān nicā, nicān nēcah, ichpoch in Dio, in Ipālnemohuani, in Teyōcoyani, in Tloque Nahuaque, in Ilhuicahua, in Tlalticpaque» —«Madre del vero Dio, del Dio per cui si vive (Ipalnemohuani), del Creatore degli uomini (Teyocoyani), del Signore di ciò che è vicino e di ciò che è lontano (Tloque Nahuaque)»—, gli indigeni sentirono che qualcuno parlava non solo la lingua del loro cuore e della loro terra, ma anche quella dei loro schemi concettuali.

Fu una svolta culturale decisiva, una «ierofania» che rifondò un ordine cosmico e confermò ciò che era già presente nelle intuizioni del re filosofo Nezahualcóyotl di Texcoco, ma anche nel profondo di una cultura complessa come quella mesoamericana (il famoso «Semina Verbi de Ad Gentes» 11): tra i 9 e i 10 milioni di conversioni spontanee, non forzate, dopo le apparizioni del 1531. Secoli dopo, Giovanni Paolo II avrebbe riassunto questo fenomeno definendo Guadalupe «il primo esempio di evangelizzazione perfettamente inculturata».

Per questo, in Messico, c’è un detto comune: un messicano può anche non essere cristiano, ma è guadalupano.

Questa ierofania crea infatti un nuovo centro (ma utilizzando lo stesso centro geografico e culturale, Tenochtitlan) pienamente transculturale: né solo spagnolo né solo mexica, ma messicano, facendo “dei due un popolo solo”.

Ipalnemohuani e Yahwe: diverse lingue, un unico concetto

Quando ho sentito parlare per la prima volta di Guadalupe, e soprattutto del nome Ipalnemohuani, “Colui per il quale si vive”, conoscendo l’ebraico, ho subito pensato a un parallelo: Ipalnemohuani è l’esatta traduzione dell’ebraico Yahwe, che deriva dal verbo h–y(w)–h e significa essere/vivere nella forma causativa: non solo “Io sono”, ma anche “Io faccio essere/esistere”.

Allo stesso modo, Ipalnemohuani contiene il verbo nahuatl nemohua, “vivere”, con il prefisso ipal, che indica relazione vitale, causativa: “colui per mezzo del quale si vive, che sostiene la vita e l’essere”.

Le apparizioni di Guadalupe sono dunque una rivelazione (e un disvelamento) di un significato già contenuto, sebbene in forma embrionale, nella mentalità mesoamericana, la cui lingua, il nahuatl (definito “copiosa, elegante, di grande artificio” da Fray Alonso de Molina) custodisce, come quella ebraica, un tesoro di complessità e di significati simbolici.

Lo spagnolo del Messico conserva anche tracce del nahuatl nelle forme affettive (casita, mamita) e di cortesia (ustedes), segno discreto di una lingua che «ha radici» nel nahuatl e di un fenomeno transculturale, come quello di Guadalupe, che ha creato un nuovo popolo che, a volte senza saperlo, continua ad essere neltiliztli tlacatl.

Vorrei terminare questo articolo con le parole di Nezahualcóyotl (1402-1472):

Nessuno può, quaggiù,

Nessuno può essere amico

Del datore della vita:

Lo si può solo invocare.

Ma accanto a lui,

Insieme a lui,

si può vivere sulla terra.

Chi lo trova,

può solo sapere questo: Egli è invocato,

accanto a lui, insieme a lui.

Si può vivere sulla terra.

Nessuno è davvero tuo amico,

o datore della Vita!

Solo come se tra i fiori

cercassimo qualcuno,

così ti cerchiamo,

noi che viviamo sulla terra.

mentre siamo accanto a te,

È come se Nezahualcóyotl, tempo prima di Guadalupe, avesse intuito che il vero Dio non domina, ma accompagna — “accanto a lui, insieme a lui, si può vivere sulla terra”.

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Mondo

Dr. Saif, Forum Abraham: Il Papa “trasmette un messaggio di normalità contro i discorsi che associano Islam, Cristianesimo e conflitto”

Il dottor Saif El Islam Benabdennour, presidente del Forum Abraham, ha dichiarato in un'intervista a Omnes che il recente viaggio del Papa “trasmette un messaggio di normalità contro i discorsi che associano Islam, Cristianesimo e conflitto”. A suo avviso, “il dialogo interreligioso è oggi più necessario che mai”.

Francisco Otamendi-12 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

Una conferenza del dottor Saif El Islam Benabdennour (Mequinez, Marocco), presidente del Forum Abraham, presso la Fondazione per la Cultura Islamica e la Tolleranza Religiosa (FICTR) a Madrid, e la recente visita di Papa Leone XIV in Turchia e Libano, hanno dato origine a questa intervista.

Durante la conversazione, il dottor Benabdennour menziona alcune sfide che il mondo si trova ad affrontare, come le guerre e le ondate di sfollamenti di massa. E ritiene che, di fronte a questo scenario, “il dialogo interculturale e la cooperazione internazionale non siano opzioni facoltative, ma necessità urgenti per affrontare le sfide del XXI secolo”.

Sottolinea inoltre che “il dialogo interreligioso è oggi più necessario che mai, ma richiede realismo, pazienza e una pedagogia dell'ascolto”.

Alla fine abbiamo parlato del viaggio di Papa Leone XIV in Turchia e Libano, una visita che il professore ha seguito con interesse in quanto musulmano.

Qual è stato il contesto e il motivo della sua conferenza sulla tolleranza e il dialogo?

– La conferenza si è svolta in un contesto di promozione della comprensione tra culture e religioni, organizzata da un'istituzione impegnata nel dialogo e nel rispetto (FCTR di Madrid). È uno sforzo del Foro Abraham per costruire ponti. Il motivo principale della conferenza è stato quello di riflettere sull'importanza dell'istruzione e della cultura per rafforzare le relazioni tra persone di origini diverse.

Il dottor Said El Islam Benabdennour alla conferenza FICTR a Madrid (@FICTR).

Lei ha fatto riferimento alla crisi e al crollo del mito del progresso inevitabile. Può spiegare meglio la sua riflessione?

– Quando si parla delle “crisi del nostro tempo” e del crollo del mito del progresso inevitabile, ci riferiamo all'idea, molto diffusa nel XIX e XX secolo, che l'umanità avanzi sempre verso un futuro migliore grazie alla scienza, alla tecnologia e alla crescita economica. Secondo questo mito, ogni generazione vivrebbe meglio della precedente e la storia avrebbe una direzione chiaramente ascendente.

Tuttavia, sottolineiamo che questa visione ottimistica non funziona più. Le crisi attuali – sociali, economiche, ecologiche, culturali e tecnologiche – dimostrano che il progresso non è automatico né garantito. L'umanità progredisce in alcuni aspetti, ma regredisce in altri: aumenta la disuguaglianza, cresce la polarizzazione sociale, si indeboliscono i legami umani e si generano nuove forme di violenza simbolica e culturale. Inoltre, lo sviluppo tecnologico, che avrebbe dovuto liberarci, è parte del problema. Molti lo utilizzano come strumento di disinformazione o controllo.

In questo contesto dobbiamo ripensare il progresso, non come qualcosa di inevitabile, ma come un compito umano che richiede responsabilità, impegno e costante attenzione. Il progresso non avviene da solo: si costruisce attraverso il dialogo, la cooperazione, l'istruzione e la capacità di correggere i propri errori. Solo comprendendo questa complessità possiamo affrontare le crisi del nostro tempo.

In che senso ha citato Walter Benjamin, Hannah Arendt e Michel Foucault?

– Ho citato Walter Benjamin, Hannah Arendt e Michel Foucault per mettere in luce diversi aspetti delle crisi contemporanee e per dimostrare che le sfide attuali non possono essere comprese solo dal punto di vista economico o politico, ma richiedono una riflessione approfondita sulla cultura, il potere e la condizione umana. 

In breve, citiamo questi tre pensatori perché ciascuno di essi offre una chiave per comprendere il nostro tempo. 

Benjamin critica il mito del progresso. Arendt sottolinea i pericoli della disumanizzazione. Mentre Foucault critica le nuove forme di potere e controllo nella società contemporanea. 

Allo stesso modo, possiamo citare il pensatore spagnolo Jovellanos, la cui analisi è ancora attuale quando afferma che un popolo ignorante è uno strumento cieco della propria distruzione. Nel complesso, ci permettono di comprendere perché la conoscenza e il dialogo non sono solo ideali, ma risposte necessarie alle crisi attuali.

È corretto affermare che lei ha esaminato il panorama mondiale e che menziona problemi quali le migrazioni causate dalle crisi climatiche e umane?

– Sì, è assolutamente corretto. Il mondo si trova ad affrontare sfide che coinvolgono le società dei cinque continenti. Tra i fenomeni più rilevanti possiamo citare le guerre e le ondate migratorie, che non sono solo il risultato di conflitti politici o economici, ma anche delle crisi climatiche, sempre più gravi. Questi spostamenti di massa non sono fatti isolati, ma un sintomo globale di un mondo interconnesso ma profondamente diseguale.

In questo contesto, il dialogo interculturale e la cooperazione internazionale non sono opzioni facoltative, ma necessità urgenti per affrontare le sfide del XXI secolo.

Il dottor Musabeh Saeed Alketbi, direttore generale della Fondazione per la Cultura e la Tolleranza Religiosa (a destra), con il presidente del Forum Abraham (@FICTR).

Cosa significa passare da una tolleranza passiva a una tolleranza attiva?

– Qui proponiamo di superare la visione tradizionale della tolleranza come atteggiamento meramente passivo, inteso come “permettere” o “sopportare” ciò che è diverso. Questa forma di tolleranza non genera una reale convivenza, né relazioni di autentico rispetto. È una tolleranza fragile che può rompersi facilmente in situazioni di tensione.

La società contemporanea deve progredire verso una tolleranza attiva, che implica il riconoscimento dell'altro come altro; si tratta di riconoscere la sua dignità, i suoi diritti, la sua visione del mondo e il suo contributo alla comunità. La differenza non è un problema, ma un valore. In questo senso, ricordiamo l'affermazione di José Cadalso, pensatore spagnolo del XVIII secolo: “Il vero patriottismo non consiste nel lodare tutto ciò che è proprio e condannare tutto ciò che è straniero”.

La tolleranza attiva richiede di parlare e ascoltare, di partecipare a conversazioni reali. Non è silenzio né indifferenza, ma comunicazione e apertura. Non si tratta solo di evitare il conflitto, ma di lavorare per la convivenza, per uno spazio condiviso dove si possa convivere con giustizia, uguaglianza e rispetto reciproco.

La tolleranza attiva implica intervenire quando si rilevano ingiustizie. È una posizione etica: non basta non essere ingiusti, è necessario opporsi all'ingiustizia.

Ha seguito il recente viaggio di Papa Leone XIV?

– Qui dobbiamo sottolineare il significato della visita di un Papa in paesi a maggioranza musulmana. La visita ha un chiaro valore simbolico, perché dimostra che la fiducia tra le religioni è possibile e trasmette un messaggio di normalità di fronte ai discorsi che associano Islam, Cristianesimo e conflitto. Potrei interpretarlo come un ulteriore passo avanti nella “normalizzazione dell'Altro”.

Il Papa ha parlato proprio di accoglienza, dignità e solidarietà. Ciò potrebbe essere collegato all'idea che le religioni devono essere ponti per costruire un'umanità condivisa, non barriere.

Come vede oggi il dialogo interreligioso?

Per quanto riguarda lo stato attuale del dialogo, si può dire che ci sono stati dei progressi. Ci sono paesi a maggioranza musulmana che promuovono il dialogo, come il Marocco, il Qatar, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Possiamo citare l'incontro dei leader religiosi ad Astana, in Kazakistan, che da anni costituisce un punto di riferimento. 

Ma non bisogna dimenticare i rischi di polarizzazione politica, la strumentalizzazione delle religioni, i discorsi estremisti da entrambe le parti. Dobbiamo portare il dialogo autentico sul piano pratico.

Come musulmano, ho seguito con interesse il viaggio del Papa. La visita è un gesto importante verso la convivenza e il rispetto tra le religioni. Il dialogo interreligioso è oggi più necessario che mai, ma richiede realismo, pazienza e una pedagogia dell'ascolto.

L'autoreFrancisco Otamendi

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Vaticano

Lettera apostolica del Papa sull'importanza dell'archeologia cristiana

León XIV scrive sull'importanza dell'archeologia, in occasione del centenario del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana.

OSV / Omnes-11 dicembre 2025-Tempo di lettura: 4 minuti

Di Carol Glatz, OSV

L'archeologia cristiana cerca di vedere, ascoltare e toccare il Verbo fatto carne, ha affermato Papa Leone XIV, invitando i vescovi di tutto il mondo e altri a incoraggiare i giovani, i laici e i sacerdoti a studiare archeologia.

Reliquie antiche, catacombe, manufatti e rovine delle prime comunità cristiane aiutano i fedeli a «riscoprire le radici della loro fede» e parlano «a coloro che sono lontani, ai non credenti e a coloro che si interrogano sul senso della vita, perché trovano un'eco di eternità nel silenzio delle tombe e nella bellezza delle prime basiliche cristiane», ha scritto il Papa in un nuovo documento.

«Inoltre, l'archeologia parla ai giovani, che spesso cercano autenticità e significato; agli studiosi, che vedono la fede come una realtà storicamente documentata piuttosto che un'astrazione; ai pellegrini, che trovano nelle catacombe e nei santuari un senso di scopo e un invito a pregare per la Chiesa», ha scritto.

L«11 dicembre il Vaticano ha pubblicato la lettera apostolica di Papa Leone XIII »sull'importanza dell'archeologia«, »in occasione del centenario del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana», fondato da Papa Pio XI nel 1925. Lo stesso giorno il Papa ha anche incontrato i membri dell'istituto in un'udienza in Vaticano.

L'istituto è un centro di ricerca e insegnamento post-laurea che offre lauree in archeologia cristiana e ha formato centinaia di archeologi specializzati nel cristianesimo antico.

Nella lettera di sei pagine, Papa Leone ribadì «il ruolo essenziale dell'archeologia nella comprensione del cristianesimo e, di conseguenza, la sua applicazione nella formazione catechetica e teologica».

«Non si tratta di ridurre la vita ecclesiale a un culto del passato», ha scritto. La vera archeologia cristiana consiste nel far sì che «il passato parli al presente» e nel riconoscere «il ruolo dello Spirito Santo nel guidare la storia».

«Nel mondo frenetico di oggi, c'è la tendenza a dimenticare e a consumare immagini e parole senza riflettere sul loro significato», ha scritto Papa Leone. «La Chiesa, d'altra parte, è chiamata a educare le persone alla memoria, e l'archeologia cristiana è uno dei suoi strumenti più nobili per raggiungere questo obiettivo».

L'archeologia è «un ministero di speranza, poiché dimostra che la fede è già sopravvissuta a tempi difficili e ha resistito a persecuzioni, crisi e cambiamenti», ha scritto. «Chi studia le origini del cristianesimo scopre che il Vangelo ha sempre avuto una forza generatrice, che la Chiesa rinasce sempre» e che la fede «si è rinnovata e rigenerata, radicandosi in nuovi popoli e fiorendo in nuove forme».

«Viviamo in un'epoca in cui l'uso improprio e il consumo eccessivo hanno preso il sopravvento sulla conservazione e sul rispetto», ha scritto. «L'archeologia, invece, ci insegna che anche la più piccola traccia merita attenzione, che ogni dettaglio ha valore e che nulla può essere scartato».

Gli archeologi, ha scritto, «non distruggono, ma decifrano», identificando «lo spirito di un'epoca, il senso della fede e il silenzio della preghiera in un pezzo di ceramica, una moneta corrosa o un'incisione sbiadita». Questo atteggiamento e questo approccio di rispetto «possono insegnarci molto sulla pastorale e la catechesi oggi».

«Le comunità cristiane hanno custodito non solo le parole di Gesù, ma anche i luoghi, gli oggetti e i segni della sua presenza», ha scritto. «La tomba vuota, la casa di Pietro a Cafarnao, le tombe dei martiri e le catacombe romane testimoniano che Dio è veramente entrato nella storia e che la fede non è una mera filosofia, ma un cammino tangibile nella realtà del mondo».

«In un'epoca in cui la cultura spesso perde di vista le proprie radici, l'archeologia diventa uno strumento prezioso» per l'evangelizzazione, afferma nel nuovo documento.

L'archeologia cristiana non si limita a guardare al passato, ha scritto, ma parla anche a tutte le persone del presente: ai fedeli, a coloro che sono lontani, ai non credenti, ai giovani e persino agli studiosi.

«La missione dell'archeologia cristiana continua ad essere quella di aiutare la Chiesa a ricordare le sue origini, preservare la memoria dei suoi inizi e raccontare la storia della salvezza non solo attraverso le parole, ma anche attraverso immagini, forme e spazi», ha scritto.

L'archeologia cristiana «cerca di toccare, vedere e ascoltare il Verbo incarnato», ha scritto. «Concentrandosi sulle tracce fisiche della fede, l'archeologia ci educa a una teologia dei sensi: una teologia che sa vedere, toccare, odorare e ascoltare».

«Crediamo anche noi nel potere dello studio, della formazione e della memoria? Siamo disposti a investire nella cultura nonostante le crisi attuali, a promuovere la conoscenza nonostante l'indifferenza e a difendere la bellezza anche quando sembra irrilevante?», ha chiesto Papa Leone.

Ha invitato “i vescovi, così come i leader e le guide nel campo della cultura e dell'istruzione, a incoraggiare i giovani, i laici e i sacerdoti a studiare archeologia”.

«L'archeologia cristiana è un servizio, una vocazione e una forma di amore verso la Chiesa e l'umanità», ha scritto, incoraggiando l'istituto pontificio a «continuare i suoi scavi. Continuare a studiare, insegnare e raccontare la storia» agli altri, nonché a «rendere visibile la Parola di vita, testimoniando che Dio si è fatto carne, che la salvezza ha lasciato la sua impronta e che questo Mistero è diventato racconto storico».

Il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana

Il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana è stato fondato per integrare il lavoro della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, che supervisiona la protezione, la conservazione e l'amministrazione delle catacombe cristiane e di altri siti archeologici sacri in Italia; della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, che promuove conferenze accademiche e studi sull'archeologia che spaziano dall'antica Roma al Medioevo; e la Pontificia Accademia «Cultorum Martyrum», che promuove la venerazione, lo studio storico e la memoria liturgica dei martiri cristiani.

Papa Leone ha esortato i diversi organismi a cooperare, comunicare e sostenersi a vicenda.

L'archeologia cristiana è «una risorsa per tutti», ha scritto, promuovendo la cultura e ispirando «il rispetto per la diversità».

L'autoreOSV / Omnes

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Spagna

Anche in Spagna cresce il numero degli adulti battezzati

La Chiesa rende conto: si mantengono invariati i dati relativi alla partecipazione alla Messa e quattro milioni di persone hanno ricevuto il suo aiuto assistenziale

Jose Maria Navalpotro-11 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

Anche in Spagna cresce il numero di adulti che ricevono il battesimo (13.000). Gli istituti scolastici cattolici fanno risparmiare allo Stato 5.067 milioni di euro e quasi quattro milioni di persone hanno beneficiato dell'attività caritativa della Chiesa. Questi sono alcuni dei dati rappresentativi della Relazione sulle attività 2024 presentata dalla Conferenza Episcopale.

La Chiesa è il più grande social network faccia a faccia della nostra società, secondo quanto emerge dalla Relazione sulle attività della Conferenza Episcopale Spagnola (CEE) relativa al 2024, presentata in conferenza stampa l'11 novembre dal segretario della Conferenza, monsignor César Francisco García Magán, e da Ester Martín, direttrice dell'Ufficio Trasparenza della Conferenza.

Il bilancio rappresenta un “esercizio di trasparenza e verità nei confronti dei fedeli cattolici, della società e delle istituzioni”, ha sottolineato monsignor García Magán. Ci sono dati quantitativi, come gli oltre otto milioni di fedeli che frequentano abitualmente la Messa domenicale, e altri puramente economici, come il fatto che per ogni euro speso dalla Chiesa nella sua missione pastorale, sociale e culturale, vengono generati 1,65 euro nell'economia spagnola. 

Monsignor García Magán ed Ester Martín alla presentazione della Relazione annuale

Partecipazione ai sacramenti

Tra i dati raccolti nel Rapporto 2024 figura la cifra di 8,23 milioni di persone (di età superiore ai 10 anni) che frequentano regolarmente la Messa la domenica, il che rappresenta un leggero aumento dello 0,3 % rispetto al dato registrato lo scorso anno.

Tra questi numeri spiccano i 13.323 battesimi di adulti, ovvero persone di età superiore ai 7 anni, con una tendenza al rialzo negli ultimi anni. Questo fenomeno si registra, in proporzioni maggiori, anche in paesi europei come la Francia o il Belgio. «Bisogna tenere presente che in Spagna il numero di battesimi di bambini è molto più elevato rispetto al totale rispetto a questi altri paesi», ha precisato monsignor García Magán. In termini di cifre totali, il rapporto riporta 146.370 battesimi lo scorso anno, contro i 152.426 dell'anno precedente.

Nel campo dell'amministrazione dei sacramenti, nel 2024 si registra un leggero calo generale: sono state registrate 154.677 prime comunioni (162.580 nel 2023), 103.535 cresime (107.153 nel 2023), 31.462 matrimoni (33.500) e 26.013 unzioni degli infermi (26.120).

Questo calo, oltre ad altre ragioni, può essere influenzato dalla diminuzione della natalità in Spagna, come ha spiegato Martín: «Ciò si riflette nel numero di coloro che ricevono i sacramenti», ha sottolineato.

Per quanto riguarda le «risorse umane», secondo il Rapporto, oltre agli 8,2 milioni di fedeli che praticano regolarmente la religione, in Spagna ci sono 14.994 sacerdoti; 31.503 religiosi e religiose (7.449 dei quali sono monaci e monache di clausura), 9.648 missionari e 1.036 seminaristi, «con un aumento del numero», secondo il segretario della CEE. Inoltre, ci sono 122 vescovi, compresi quelli emeriti. Ci sono 82.106 catechisti e 34.494 insegnanti di religione che contribuiscono a diffondere il messaggio cristiano. 

Questione di soldi

Tra i dati economici, la Relazione sottolinea come le spese della Chiesa per le sue attività siano interamente finanziate dai fedeli e dai contribuenti. Le spese per l'attività della Chiesa diocesana in Spagna ammontano a 1.428 milioni di euro, ovvero quattro volte di più rispetto al contributo derivante dall'assegnazione fiscale.

Secondo il segretario della CEE, questa assegnazione fiscale rappresenta «un esercizio di democrazia fiscale. È ciò che decidono i contribuenti attraverso la crocetta sulla dichiarazione dei redditi. Nessuno è obbligato a farlo».

Così, nel 2024 le diocesi hanno ricevuto attraverso l'assegnazione fiscale 326,5 milioni di euro. Altri 399,7 milioni provengono dai contributi volontari dei fedeli (donazioni dirette, abbonamenti periodici o altro); 168 milioni dai proventi patrimoniali; e altri 424,5 milioni da altre entrate correnti, come sovvenzioni di vario tipo e attività. A ciò si aggiungono 66,6 milioni di entrate straordinarie, per questioni patrimoniali e di capitale.

Ester Martín ha sottolineato che la sezione relativa alle donazioni periodiche dei fedeli è cresciuta dell'11 %.

Nella spesa diocesana, 236 milioni (il 19% del totale) sono stati destinati alle attività pastorali e assistenziali delle diocesi e delle parrocchie; 197 milioni (16 %) alla retribuzione dei sacerdoti; 257 milioni (20 %) al personale laico delle diocesi; 35 milioni (3 %) a centri di formazione e la voce più consistente, 419 milioni (33 %), a spese di funzionamento ed edifici. A ciò si aggiungono 117,6 milioni di spese straordinarie (nuove chiese e altro). Le diocesi hanno aumentato di quasi 7 milioni di euro l'importo destinato direttamente alle attività assistenziali.

L'attività svolta dagli enti della Chiesa ha un impatto socioeconomico su settori chiave dell'economia. Pertanto, secondo quanto riportato nella Relazione, per ogni euro speso dalla Chiesa al fine di adempiere alla sua missione pastorale, sociale e culturale, vengono generati 1,65 € nell'economia spagnola. 

Risparmio nell'istruzione

Come sottolineato da Ester Martín, i 2.527 istituti scolastici cattolici comportano un risparmio per lo Stato di 5.067 milioni di euro all'anno, con un aumento del 30% negli ultimi quattro anni. In questi istituti studiano 1.482.503 alunni. Più di 100.000 di loro hanno partecipato a gruppi di catechesi, formazione alla fede e volontariato. 

Inoltre, in Spagna sono registrate 336 scuole diocesane, con circa 150.000 studenti.

Per quanto riguarda l'attività caritatevole, quattro milioni di persone hanno ricevuto aiuto dalla Chiesa in oltre 9.000 centri sanitari e assistenziali. Nel campo della salute, i 972 centri sanitari, ospedali, ambulatori o residenze hanno accolto 1.330.128 persone. 

I centri di assistenza sono la maggioranza, 8.088, che hanno aiutato 2.482.107 persone. La maggior parte di questi centri è incentrata sulla lotta alla povertà, con 6.282 centri che hanno assistito quasi due milioni di persone. Altri centri di assistenza hanno come obiettivo la promozione del lavoro, l'assistenza agli immigrati e ai rifugiati, la difesa della vita e della famiglia, la riabilitazione dei tossicodipendenti, la promozione e la protezione delle donne, tra gli altri.

Inoltre, nella Pastorale penitenziaria ci sono 159 cappellani e 2.047 volontari che prestano un aiuto umano e spirituale essenziale nelle cappellanie di 84 centri penitenziari e in 87 case di accoglienza. Gestiscono 1.237 programmi di assistenza religiosa, sociale e legale.

In questo ambito assistenziale va sottolineato il dato relativo ai 52.000 posti di lavoro diretti creati dalle diocesi e dalla Conferenza Episcopale.

Patrimonio

L'impronta della Chiesa cattolica nella cultura spagnola è determinante. Ne sono prova i 3.161 beni di interesse culturale appartenenti alla Chiesa. Esistono inoltre, ad esempio, 287 musei diocesani, parrocchiali e religiosi. La Chiesa si prende cura di questo ricco patrimonio e per questo nel 2024 le diocesi hanno stanziato 91,2 milioni di euro per 842 progetti di costruzione e conservazione di edifici e monumenti.

Il Resoconto delle attività riporta anche l'impatto della Chiesa sulle celebrazioni e le feste religiose. Oltre al milione di membri delle confraternite presenti in Spagna, ci sono 171 feste della Settimana Santa dichiarate di interesse turistico, su un totale di 426 celebrazioni e feste religiose come pellegrinaggi o processioni.

In Spagna ci sono 638 santuari, tra cui non solo quelli emblematici per il numero di visitatori, come Montserrat, El Pilar, Caravaca de la Cruz o Torreciudad, ma anche altri più piccoli situati in umili villaggi. A questo proposito vale la pena menzionare anche il Cammino di Santiago, che lo scorso anno ha riunito 499.183 pellegrini registrati.

I dati del Resoconto delle attività 2024 sono disponibili sul sito web della Conferenza Episcopale e in quella del Portale della trasparenza.

Evangelizzazione

Guadalupe: l'immagine che crea un popolo

L'immagine di Guadalupe funzionò come un "codice indigeno" ricco di simboli che comunicavano il Vangelo in modo comprensibile ai Mexica e produsse milioni di conversioni spontanee, essendo considerata l'esempio più perfetto di evangelizzazione inculturata.

Gerardo Ferrara-11 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

Furono dei segni a convincere il vescovo e gli abitanti della nuova Città del Messico dell’autenticità di quanto Juan Diego riferiva. In particolare, fu il mantello (tilma) del veggente.

La tilma

Per credere all’autenticità delle apparizioni, il vescovo Juan de Zumárraga chiese a Juan Diego un segno e, durante la quarta apparizione, la Vergine disse al veggente di raccogliere dei fiori miracolosamente fioriti sul Tepeyac (rose di Castiglia fiorite nel mese di dicembre su un terreno arido) e di portarli al vescovo dopo averli riposti nella sua tilma di fibra d’agave.

Juan Diego obbedì e, davanti al vescovo e diversi testimoni, dispiegò il mantello, su cui, mentre ne uscivano i fiori, apparve l’immagine della Vergine.

Che cosa sappiamo di questa tilma, con l’immagine che vi è impressa?

  • È acheropita (termine derivante dal greco che significa “non dipinta a mano”), come la Sindone di Torino: i colori fluttuano a 0,3 mm dalla fibra, come sospesi.
  • È definita dagli studiosi “Codex Guadalupano”, o “Codice teofanico-indigeno”, perché gli indigeni non usavano l’alfabeto ma pittogrammi sacri realizzati dai tlacuilos. La tilma è dunque un testo sacro visivo, comprensibile nella grammatica simbolica nahua e scritto su tessuto (ma si “scrivevano” pure su amatl, carta ricavata da fibra di fico o agave).
  • È un indumento semplice, da contadini, ruvido e fragile, di tessuto naturale che deperisce in 15-20 anni. Ma quella di Juan Diego ha resistito quasi cinque secoli, senza deteriorarsi significativamente, reggendo persino all’esplosione di una bomba.
  • Ha caratteristiche simboliche sia cristiane che indigene.

I simboli del codice

Tra i simboli immediatamente interpretabili dai mexica vi sono:

  • Il Nahui Ollin, fiore a quattro petali sul ventre della Vergine. Simbolo più sacro della cosmologia nahua, rappresenta il Dio unico (di cui le altre divinità sono emanazione), origine della vita e del tempo, centro dell’universo (axis mundi), punto in cui cielo e terra s’incontrano. Per un mexica, questo fiore sul ventre della Vergine significava che quel Dio unico entrava nella storia nel grembo di una madre. Va detto pure che i fiori, nel mondo nahua, sono un oggetto altamente simbolico, sommo simbolo della verità e della vita spirituale. Offrirne voleva dire offrire il proprio cuore.
  • Le stelle. Sulla tilma compare la mappa esatta delle stelle visibili nel cielo sopra Città del Messico il 12 dicembre 1531. Questo ha un significato fortissimo, che si traduce nel concetto di tlalticpac in ilhuicac — “armonia tra cielo e terra”: qualcosa che avviene nella storia ma è confermato dalle stelle, un’unione tra umano e divino, celeste e terreno.
  • La cinta materna. La Vergine indossa una fascia nera sul ventre, la stessa delle donne mexica in gravidanza, il che indica che non è una dea ma porta in grembo il Nahui Ollin, cioè il divino: il Dio unico. Anche qui si nota l’assonanza tra questo simbolo e il concetto di Theotokos (madre di Dio) riferito a Maria, creatura ma madre del Creatore.
  • La postura. Il ginocchio flesso e il piede sinistro in avanti indicano la posizione tipica della danza sacra mexica, netotiliztli: una danza che è preghiera, il corpo che si muove in armonia con il ritmo cosmico, da persona che si muove e si pone in relazione con il creato e le creature.
  • Gli occhi. Visibili solamente a partire dal XX secolo, negli occhi della Vergine di Guadalupe compaiono riflessi microscopici di tredici figure. Il primo ad accorgersi di questo particolare fu un fotografo, Alfonso Marquéz, nel 1929. La scoperta fu poi confermata nel 1951 da José Carlos Salinas, che identificò la sagoma di Juan Diego. Nel 1979 si arrivò poi, grazie all’ingrandimento digitale, a individuare altre figure riflesse nelle pupille, compresa quella del vescovo Zumárraga, di un interprete, di un gruppo familiare, con un effetto ottico compatibile con quello di un occhio umano vivo: un dettaglio impossibile da realizzare con tecniche pittoriche dell’epoca.
  • Il sole e la luna. La Vergine appare vestita di sole e in piedi sulla luna oscura. Nella cultura mexica, il sole e la luna erano divinità potentissime. Il fatto che la Vergine sia rivestita del sole e poggiata sulla luna indica un superamento di queste figure: creatura, Madre del Creatore e degli uomini, non solo lei ma tutti i suoi figli “superano” gli idoli antichi.

Missione dialogica o impositiva

La caduta di Tenochtitlan nel 1521 non fu solo un evento politico, ma per i mexica segnò la fine del Quinto Sole, cioè la fine del mondo: crollava l’ordine cosmico, non solo l’impero. Fu sradicamento e smarrimento: i sacrifici erano finiti ma il Sole continuava a sorgere, perché? Quindi, oltre all’afflizione, permaneva un’apertura al sacro, al divino, a qualcuno che potesse giungere in aiuto.

Consideriamo alcuni fatti.

I mexica erano legatissimi alla loro tradizione, legata al concetto di “avere radici” (era autentico solo ciò che metteva radici nella storia, nella comunità e nell’identità — neltiliztli tlacatl, “l’uomo che ha radici”). Ciò supponeva che essi sarebbero stati disposti a migliorare e purificare le loro tradizioni, ma non a sradicarle o sostituirle.

L’avevano capito bene già alcuni missionari spagnoli, come Bernardino de Sahagún, Alonso de Molina e Diego Valadés, i quali avevano adottato un modello “dialogico” di missione: tentarono di tradurre il Vangelo nei concetti e nel linguaggio nahua.

Altri, invece, preferirono adottare un modello “impositivo”, convinti (Plática de 1524) che gli indigeni avessero attirato l’ira divina con il loro comportamento, e che quindi il loro passato andasse letteralmente cancellato, sradicandoli dalle loro tradizioni.

Tra questi, c’era proprio Juan de Zumárraga — primo vescovo della Nuova Spagna e di Città del Messico – che fu proprio colui che chiese il segno a Juan Diego e poi gli credette dopo aver visto la tilma.

Zumárraga distrusse idoli, templi e manoscritti, tentando di eliminare la memoria spirituale nahua. Eppure, proprio a lui, simbolo del modello impositivo, fu dato il segno più prezioso: quel Codice teofanico-indigeno che è la tilma con impressa l’immagine della Vergine.

Un messaggio non “calato dall’alto”

Il messaggio di Guadalupe, un messaggio di riconciliazione e superamento dei conflitti, non è quindi unicamente per i nuovi credenti ma anche per i vecchi. È come se la Vergine, da madre buona e paziente con tutti i suoi figli, si rivelasse agli uni per purificare la loro memoria e il loro passato, confermando quanto già vi era di buono ma superando quello che era sbagliato, e agli altri non per correggerli come una maestrina, ma per “educarli” a dialogare, annunciando il Vangelo e non imponendo un modello culturale.

Significativo è il fatto che la Vergine non faccia a meno del vescovo (che coinvolge in tutto e che è spesso il destinatario dei suoi messaggi e a cui rivolge le sue richieste), un’autorità della Chiesa e uno spagnolo, e che non si limiti a tradurre il messaggio cristiano in un’altra lingua, ma lo riveli usando un linguaggio, delle categorie affettive, religiose e culturali tipicamente nahua. Non parla da fuori: parla da dentro l’anima del Messico che, di fatto, stava facendo nascere.

Il sociologo tedesco Hartmut Rosa afferma che le persone cambiano, si trasformano non semplicemente quando ricevono nuove idee, ma quando qualcosa risuona dentro di loro, come se la realtà restituisse la propria voce. E questa esperienza di “risonanza” si verifica quando non vi è dominazione, ma apertura, coinvolgimento emotivo, risposta personale e trasformazione reciproca.

Qualcosa di simile affermano anche i teorici della comunicazione Kent e Taylor, che espongono la loro «teoria della comunicazione dialogica» sostenendo che il vero dialogo, come «forma più elevata di comunicazione», è quello basato sull'empatia, la vicinanza, il rischio di aprirsi all'altro, l'impegno in una relazione duratura.

E Guadalupe è questo: un’esperienza di risonanza, di riconoscimento reciproco, di empatia.

Tra il 1531 e il 1545 si registrarono tra 8 e 10 milioni di conversioni spontanee, senza coercizione, ma non alla fede “spagnola”, bensì a una fede cristiana inculturata (Giovanni Paolo II ha definito Guadalupe “il primo e più perfetto esempio di evangelizzazione inculturata nella storia della Chiesa”).

L’antropologo messicano Miguel León-Portilla affermò infatti che “a Guadalupe non nacque una religione nuova, ma una nuova identità: né spagnola né indigena, ma meticcia, messicana”.

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Che cos'è il Natale per te?

Tra tradizioni, leggende e celebrazioni che attraversano il mondo, il Natale ci ricorda il suo significato più profondo: la nascita di Gesù, origine di uno spirito che unisce, ispira bontà, risveglia gratitudine e ci invita ad amare Dio servendo i nostri fratelli.

11 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

L'anno liturgico inizia con l'Avvento, periodo di preparazione alla celebrazione del Natale. Ho fatto un breve sondaggio tra i miei amici chiedendo loro di rispondere a una sola domanda: 

Che cos'è il Natale per te?

Ho ricevuto risposte molto diverse tra loro:

  • È la festa in cui celebriamo la nascita di Gesù Cristo.
  • È un periodo di pace, di convivenza tra amici e familiari.
  • È un momento di gioia, speranza e fede
  • È “la corsa”, bisogna comprare regali, organizzare cene, rispettare gli impegni.
  • È una convivenza familiare molto bella, dove ci sono abbracci, affetto, unità.
  • È un periodo dell'anno che mi rende triste.
  • È l'occasione per parlare ai bambini del loro migliore amico: il Bambino Gesù.

La verità è che il Natale è una festa che coinvolge più di 160 paesi, praticamente in tutto il mondo, per ragioni religiose, culturali e anche commerciali. Si celebra il 25 dicembre ed è una delle feste principali per noi cristiani, poiché commemoriamo la nascita di Gesù Cristo, avvenuta a Betlemme (Cisgiordania, Palestina) e da cui facciamo risalire il tempo della nostra era.

In molti modi, questa festa promuove l'unione familiare, l'amore, la pace e lo scambio di doni, con tradizioni come l'albero di Natale, cene speciali e la figura di Babbo Natale (Santa Claus, San Nicola). 

La Befana in Italia è una leggenda che racconta come i Re Magi persero la stella e una vecchia signora che chiamavano “la strega Befana” li aiutò a ritrovarla. I magi, grati, la invitarono ad andare con loro, ma lei rifiutò. In seguito se ne pentì e cercò di raggiungerli, ma non ci riuscì; volle quindi rimediare alla sua decisione sbagliata e distribuì regali ai bambini a nome loro. Ora è conosciuta come la nonna Befana che porta i regali ogni Natale. 

In Irlanda si racconta la storia di un uccellino che tenne al caldo il bambino Gesù, in assenza di Giuseppe che era uscito per procurarsi del cibo, sbattendo le ali affinché la fiamma del fuoco non si spegnesse. Le fiamme arrivavano a bruciare il petto del piccolo uccellino, ma lui non si allontanò. La Vergine Maria lo benedisse dicendo: “Uccellino coraggioso, hai aiutato a riscaldare il figlio di Dio, per questo ti do la mia benedizione. D'ora in poi ti chiamerai Petirrojo, che significa petto rosso, e sarà sempre tuo orgoglio sapere la buona azione che hai compiuto”. 

Nei Paesi Bassi si parla della figura di “Sinterklaas”, ispirata al vescovo San Nicola, che visse in Italia nel IV secolo ed era noto per distribuire doni a chi ne aveva bisogno. Gli immigrati olandesi portarono questa tradizione negli Stati Uniti e il nome di questo personaggio si evolse in Santa Claus (in spagnolo: Papá Noel per influenza della Francia, dove questo personaggio era chiamato Père Noel). 

In Germania si racconta la storia dei ragni di Natale. Questi vedevano una famiglia addobbare un alberello con delle lucine. Quando la famiglia andò a dormire, essi sospirarono desiderando vivere su quell'albero e vollero contribuire con la loro creatività per renderlo la loro casa. Si avvicinarono e riempirono quell'alberello con le loro ragnatele. Si racconta che Babbo Natale vide tutto questo all'alba e pensò che alla famiglia non sarebbe piaciuto vedere il proprio albero in quello stato. Comprendeva anche il desiderio dei ragni e, affinché tutti potessero essere contenti, soffiò sulle ragnatele che si trasformarono in palline. Così oggi gli alberi vengono decorati con luci e oggetti vari, ricordando il gesto gentile di Babbo Natale. 

Negli Stati Uniti si racconta la storia di Rodolfo, il reno. Il suo naso rosso e grande lo rendeva oggetto di scherno. Ma un giorno, quando Babbo Natale aveva bisogno di luce, scoprì la particolarità di Rodolfo e gli chiese aiuto per guidare la slitta e distribuire i regali ai bambini. 

Alcune tradizioni basate sui Vangeli che evocano Dio che si è fatto uomo: 

In Messico le posadas, in Colombia “la novena”; in tutto il mondo si cantano canti natalizi, si allestiscono presepi (che rappresentano la nascita di Gesù Bambino); si gusta il “Racconto di Natale” di Charles Dickens o la fantastica narrazione della storia del quarto re mago...

Sebbene alcune di queste tradizioni siano secolari, tutte racchiudono lo spirito del Natale. Lo spirito della bontà, della generosità e della gratitudine. Lo spirito dell'unità, del perdono e della pace. Questo è Gesù!

Non possiamo negare la sua influenza in tutto il mondo: ogni Natale sentiamo il bisogno di conoscerlo meglio, di amarlo di più e di servirlo meglio.  

Che questo Natale Gesù nasca nei nostri cuori, che ci trasformi in modo tale da riporre tutta la nostra fiducia in Lui. Che ci spinga ad amarlo nei nostri fratelli. Che facciamo il bene senza sosta, sapendo che tutto ciò che facciamo per un nostro piccolo fratello (i poveri, i malati, coloro che si sentono soli, tristi...) , lo facciamo per Gesù!

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Evangelizzazione

San Damaso I, Papa, promotore della Bibbia in latino con San Girolamo

San Damaso I fu una figura chiave della Chiesa nel IV secolo. Difese l'ortodossia, promosse la Bibbia in latino (la Vulgata di San Girolamo), rafforzò il primato di Roma e onorò la memoria dei martiri. La liturgia lo celebra l'11 dicembre.

Francisco Otamendi-11 dicembre 2025-Tempo di lettura: < 1 minuto

Papa dal 366 al 384, San Damaso I era di origine spagnola e nacque probabilmente a Roma intorno al 305. Essendo diacono incardinato a Roma, servì Papa Liberio e lo accompagnò in esilio. 

Gli succedette nella sede di Pietro nell'anno 366, quando la Chiesa attraversava un momento delicato. Subì persecuzioni, esilio e calunnie, riunì sinodi contro gli eretici, difese la fede proclamata nel Concilio di Nicea e fu grande promotore del culto dei martiri.

Ha incaricato San Girolamo che tradurre in latino la Bibbia (la Vulgata), sostituì l'uso del greco con quello del latino nella liturgia e consolidò le catacombe. Morì l'11 dicembre dell'anno 384.

Alleluia, Gloria Patri...

San Damaso introdusse nella liturgia cristiana espressioni come “Alleluia” e la dossologia “Gloria Patri ...” (in onore della Trinità), per affermare la fede cattolica in tempi di controversie dottrinali.

La sua origine è oggetto di dibattito. Alcune fonti indicano che sia nato nell'antica provincia romana della Hispania. Altre fonti più recenti suggeriscono che possa essere nato a Roma. In ogni caso, la tradizione – riportata da diverse fonti spagnole e cattoliche – lo considera spesso “di origine spagnola” o “galiziana”. 

L'autoreFrancisco Otamendi

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Cinema

Grande furto, piccolo ladro 

La serie, composta da sei episodi (e in attesa di una seconda stagione), si ispira a un fatto realmente accaduto: tra il 2011 e il 2012, alcuni ladri hanno rubato quasi 10.000 barili di sciroppo nel corso di diversi mesi.

Pablo Úrbez-11 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

In un piccolo villaggio del Canada francofono si concentra quasi tutta la produzione mondiale di sciroppo d'acero. Ruth Clarke, che vive della vendita di sciroppo e il cui marito è in coma, subisce la gestione corrotta e dispotica della Federazione dei produttori di sciroppo. Remy Bouchard, dal canto suo, è un quarantenne che vive ancora a casa del padre e lavora come guardia di sicurezza nel magazzino della Federazione. Infine, Mike Byrne appartiene a una famiglia di mafiosi, ma nessuno gli affida lavori seri a causa della sua inettitudine, quindi fa da fattorino. Questi tre personaggi decidono di intraprendere insieme il furto di centinaia di barili di sciroppo, del valore di milioni di dollari.

Il termine appiccicoso che dà il titolo a questa serie, significherebbe appiccicosoin riferimento allo sciroppo d'acero. Si tratta di una serie locale, di produzione canadese, con riferimenti geografici e culturali pienamente attribuibili alla regione francofona del Canada, ma universale nello sviluppo della storia, nella caratterizzazione dei personaggi e nel modo di narrare. L'appiccicoso è una tragicommedia, che alterna la comicità dovuta alle situazioni tragiche subite dai suoi personaggi, con la suspense e il dramma sullo sfondo. Una delle sue maggiori virtù è la moderazione nel saper ridicolizzare in ogni momento, mettendo a nudo l'assurdità delle situazioni e usando l'arguzia, oltre a dare credibilità al dramma dei protagonisti e a spingere lo spettatore a empatizzare con loro.

La serie in sei puntate (con una seconda stagione in arrivo) è ispirata a un fatto realmente accaduto: tra il 2011 e il 2012, i ladri hanno rubato quasi 10.000 barili di sciroppo nell'arco di alcuni mesi. Un cartello all'inizio di ogni episodio ci informa di questa circostanza, ma proprio per indicare che non si intende ricostruire quell'episodio. Non si tratta, quindi, di una serie storica, ma si basa su un succoso aneddoto per disegnare tre personaggi simpatici e plasmare questo lavoro secondo gli schemi delle storie di grandi rapine: ideare il piano, armare il materiale ed eseguirlo, con le relative sottotrame. È una storia che ha come protagonisti i reietti della società, il cui valore va di pari passo con il successo o il fallimento del loro ambizioso piano. 

L'autorePablo Úrbez

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Vangelo

Chi aspettiamo? Terza domenica di Avvento (A)

Vitus Ntube ci commenta le letture della terza domenica di Avvento (A) corrispondente al 14 dicembre 2025.

Vitus Ntube-11 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Mentre avanziamo in questo tempo di Avvento, la liturgia di oggi ci porta a porci una domanda importante: chi stiamo aspettando? Qual è l'identità di questo “chi”? A quale tipo di incontro ci stiamo preparando in questo Avvento? Lo stesso Giovanni Battista dà voce a questa domanda nel Vangelo di oggi: ”Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”.

Porre l'accento sul “chi”, in primo luogo, ci ricorda che stiamo aspettando qualcuno e non semplicemente qualcosa. Non stiamo aspettando un sentimento, una cosa, una sensazione, un'idea, una soluzione, un pacco di Amazon, ma piuttosto qualcuno, un evento che ci mette in contatto con una persona. L'Avvento ci prepara a questo. Il cristianesimo è un incontro con una persona. Ci vengono in mente le parole di Papa Benedetto XVI: “Non si diventa cristiani per una decisione etica o per una grande idea, ma per l'incontro con un evento, con una Persona, che dà un nuovo orizzonte alla vita e, con esso, un orientamento decisivo”.

Questo è il cuore dell'Avvento: Dio stesso viene. Il profeta Isaia lo annuncia: ”Dite ai turbati: Siate forti, non temete. Ecco il vostro Dio! Arriva la vendetta, la punizione di Dio. Egli viene di persona e vi salverà”.

Oggi la Chiesa celebra il Domenica Gaudete, la domenica della gioia. Ci rallegriamo perché Dio viene, Dio è vicino. La grandezza di questa gioia si manifesta nella descrizione della profezia di Isaia. Egli usa molte metafore per descrivere l'esultanza e la gioia del creato: il deserto e la terra arida esulteranno e canteranno canti di gioia perché vedranno la gloria di Dio. Queste metafore mostrano l'immensità della gioia per l'arrivo di Dio. Questi elementi del creato non possono letteralmente rallegrarsi perché non hanno un'anima, ma il profeta esagera il linguaggio per aiutarci a comprendere la gioia che dovrebbe riempire i nostri cuori davanti all'arrivo di Dio. Se loro sono chiamati a esprimere tali sentimenti, quanto più noi dovremmo rallegrarci per la vicinanza di Cristo!

Ciò che Isaia aveva annunciato si è avverato con la venuta di Cristo. La risposta che Egli ha dato ai discepoli di Giovanni Battista comunica questa gioia: i ciechi vedono, i sordi odono e gli zoppi camminano. Ci rallegriamo perché Cristo viene a salvarci e a liberarci. La Chiesa ci incoraggia a non perdere di vista questa verità. Giovanni Battista, dalla prigione, non poteva vedere, ma solo ascoltare le opere di Cristo, e aveva bisogno di essere rassicurato.

Il dubbio sull'identità di Cristo espresso dal Battista è piuttosto una questione di discernimento. Come Giovanni in prigione, a volte possiamo chiederci: è davvero questo il Cristo che stiamo aspettando? O dovremmo cercarne un altro? La domanda di Giovanni non è solo un dubbio, è discernimento. Che tipo di Salvatore stiamo aspettando? Quale Cristo aspettiamo? O dovremmo cercarne un altro? Vogliamo un Cristo a nostra immagine, che risolva i problemi a modo nostro, secondo i nostri tempi? O gli permettiamo di essere il Salvatore che ci sorprende, che ci salva secondo la sapienza di Dio e non la nostra? Dobbiamo imparare ad ascoltare e a vedere di nuovo.

L'Avvento ci invita ad avvicinarci a Cristo che già si è avvicinato a noi. A vedere come vede Lui. Ad imparare la pazienza e il discernimento. A rallegrarci non per ciò che immaginiamo che Dio dovrebbe fare, ma per ciò che sta già facendo in mezzo a noi. Quindi oggi ci chiediamo nuovamente: chi aspettiamo in questo Avvento?

Mondo

Tre argomenti di un tribunale spagnolo per consentire di pregare davanti alle cliniche abortive

Un tribunale penale di Vitoria-Gasteiz ha ritenuto che pregare pacificamente davanti a una clinica abortiva non costituisca un reato e sia quindi conforme al quadro delle libertà sancito dalla Costituzione spagnola. Ecco le argomentazioni della magistrata.

Francisco Otamendi-10 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

I 21 imputati per un presunto reato di coercizione per aver partecipato a raduni di preghiera davanti a una clinica abortiva nella capitale dell'Álava sono stati assolti da un tribunale spagnolo. Si tratta del Tribunale penale n. 1 di Vitoria-Gasteiz, nei Paesi Baschi. 

I fatti giudicati hanno avuto luogo tra il 28 settembre e il 6 novembre 2022, durante la campagna ‘40 giorni per la vita’. Le persone ora assolte si sono alternate davanti alla clinica portando cartelli con messaggi come '40 giorni per la vita, non sei sola, noi siamo qui.

Motivi

Riassumiamo qui tre argomenti esposti dal magistrato Beatriz Román, autore della sentenza, secondo cui Forum Libertas, per pronunciare la sua assoluzione.

1.- Libero diritto di riunione. Gli imputati “non hanno fatto altro che esercitare il loro libero diritto di riunirsi, scegliendo un luogo vicino a una clinica dove si praticano aborti. Hanno ritenuto che esprimere le loro rivendicazioni in quel luogo e nel modo in cui lo hanno fatto fosse il modo più appropriato per far arrivare il messaggio che vogliono trasmettere – pregare per la vita e offrire il loro aiuto – direttamente ai destinatari principali”. 

2.- In modo “pacifico”.

Tutto ciò, aggiunge il magistrato, è stato comunicato correttamente all'autorità competente ed è stato realizzato in silenzio in modo “squisitamente pacifico”.

3.- Non ci sono state offese né pressioni nei confronti dei lavoratori o delle utenti del centro abortivo.

La sentenza, sempre secondo la fonte citata, rappresenta una pietra miliare giuridica in quanto si tratta del primo processo di questo tipo celebrato in Europa e sostiene la tesi sostenuta dalla difesa. Gli imputati si sono limitati a pregare in silenzio e a manifestare il loro sostegno alla vita, senza insultare né esercitare pressioni sui lavoratori o sugli utenti del centro.

La risoluzione può essere impugnata dinanzi alla Corte Provinciale di Álava e costituisce un precedente sulla presenza di gruppi pro-vita nelle vicinanze dei centri abortivi. 

Il pubblico ministero e l'accusa chiedevano la reclusione o i lavori socialmente utili.

Il pubblico ministero e l'accusa privata hanno chiesto cinque mesi di reclusione o lavori socialmente utili, oltre a un risarcimento fino a 20.000 euro e un ordine di allontanamento. Tuttavia, il giudice ha concluso che non sussisteva alcun reato.

Gli avvocati difensori hanno sostenuto che non si è trattato di “molestie” o “persecuzioni”, ma semplicemente di preghiere silenziose. Il numero di persone riunite “non ha mai superato le cinque” nello stesso turno.

Foto di Isabel Vaughan-Spruce (OSV News photo/Simon Caldwell).

A Birmingham e a Madrid 

Il caso ha precedenti, in Spagna e in altri paesi. Nel dicembre 2022, Isabel Vaughan-Spruce, co-direttrice della Marcia per la Vita nel Regno Unito, è stata arrestata a Birmingham per aver “pregato nella sua mente” davanti a una clinica abortiva. Due mesi dopo, la giustizia ha ritirato le accuse contro di lei, che, in un'intervista con Omnes, ha definito surreale il momento vissuto.

Isabel Vaughan-Spruce, nota per il suo lavoro a favore delle donne che decidono di portare avanti la gravidanza, era stata arrestata perché “sospettata” mentre stava “pregando mentalmente”.

In Spagna, il dottor Jesús Poveda si presenta una volta all'anno, il 28 dicembre, giorno dei Santi Innocenti, davanti a una clinica abortiva a Madrid. Di solito viene arrestato e poi rilasciato. Poveda dice: “Forniamo assistenza 364 giorni all'anno e un giorno, solo un giorno, facciamo resistenza passiva”. Potete vedere qui una riflessione su questi fatti, sui limiti etici e legali nella difesa della vita.

L'autoreFrancisco Otamendi

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Vaticano

León XIV chiarisce il suo gesto nella Moschea Blu: «Preferisco pregare in una chiesa cattolica alla presenza del Santissimo»

Con grande calma, il Papa ha spiegato perché ha deciso di non pregare quando ha visitato la famosa moschea turca.

Javier García Herrería-10 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Martedì Papa Leone XIV ha risposto da Castel Gandolfo alle domande dei giornalisti su uno dei momenti più commentati del suo recente viaggio in Turchia: il suo silenzio nella Moschea Blu di Istanbul. Il gesto ha fatto scalpore, poiché il muezzin della moschea, Askin Musa Tunca, ha spiegato ai media che quando durante la visita ha chiesto al Papa se desiderasse avere un «momento di preghiera», il Papa gli ha risposto «no, volevo solo visitarla».

Poiché Giovanni Paolo II e Benedetto XVI durante i loro viaggi in quel luogo avevano dedicato un momento alla preghiera, la decisione di Leone XIV ha suscitato ogni tipo di commento. L'ufficio stampa della Santa Sede ha spiegato che il Papa ha fatto «una pausa vissuta in silenzio, in spirito di raccoglimento e ascolto, con profondo rispetto per il luogo e per la fede di coloro che vi si riuniscono in preghiera». Ciononostante, si è scatenata una discussione pubblica sul perché il Pontefice non avesse pregato «almeno in modo visibile», cosa che i suoi predecessori avevano fatto come gesto interreligioso di rilievo.

Davanti al Santissimo, il posto migliore per pregare

Alla domanda diretta dei giornalisti sul perché non avesse pregato «almeno visibilmente», come avevano fatto i suoi predecessori, Leone XIV rispose chiaramente: «Chi ha detto che non ho pregato? Cioè, hanno detto che non ho pregato, ma io ho già dato una risposta sull'aereo, ho citato un libro». Si trattava di La pratica della presenza di Dio, del carmelitano Lorenzo de la Resurrección. Citando quest'opera, il Papa ha voluto sottolineare che la preghiera può essere interiore, costante e non necessariamente accompagnata da gesti esteriori. «Forse sto pregando proprio in questo momento», ha aggiunto davanti ai giornalisti.

Il Pontefice ha aggiunto, tuttavia, che la sua preferenza personale è la preghiera davanti al Santissimo Sacramento:
«Preferisco pregare in una chiesa cattolica alla presenza del Santissimo», ha affermato, minimizzando la polemica e definendo «curioso» il clamore suscitato da alcune interpretazioni sulla sua visita alla moschea.

Il gesto di Leone XIV a Istanbul, vissuto in silenzio e raccoglimento, si aggiunge così a una lunga tradizione di incontri interreligiosi che ogni Pontefice ha espresso con il proprio stile. Con le sue dichiarazioni, il Papa ha voluto chiudere il dibattito, ribadendo che la preghiera non sempre si manifesta visibilmente, ma può essere profondamente presente.

Di cosa tratta il libro raccomandato dal Papa?

La pratica della presenza di Dio È un piccolo classico della spiritualità cristiana, scritto sulla base delle conversazioni e delle lettere di fratello Lorenzo della Resurrezione, un carmelitano scalzo del XVII secolo. Nonostante la sua brevità, il libro insegna un cammino molto semplice ma impegnativo: vivere costantemente alla presenza di Dio, in ogni momento e situazione, non solo durante i momenti formali di preghiera. Per fratello Lorenzo, Dio non è solo in chiesa o nei momenti di raccoglimento, ma in tutto ciò che facciamo: cucinare, pulire, camminare o trattare con altre persone.

L'opera è nota perché propone una spiritualità accessibile a chiunque, non solo ai monaci o ai contemplativi. Il suo stile è diretto, senza fronzoli, e mostra che la santità non richiede grandi imprese, ma un cuore che vive unito a Dio nella quotidianità.

Vaticano

Il Papa: la morte non è la fine, e invita al perdono e alla riconciliazione

Durante l'udienza di questa mattina, riflettendo sulla Resurrezione di Gesù, Papa Leone XIV ha affermato che la morte non è la fine, ma il passaggio verso la piena luce, verso la beata eternità. Inoltre, ha lanciato un messaggio di riconciliazione e perdono tra i popoli. 

Francisco Otamendi-10 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Papa Leone XIV ha ripreso questa mattina la catechesi dell'Anno Giubilare su ‘Gesù Cristo, nostra speranza’ e ha meditato su ‘La risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale’. 

Quando ci si rivolge alla Pubblico ai pellegrini di lingua francese, inglese e portoghese, ha sintetizzato lo stesso concetto: “La morte non è la fine, ma il passaggio verso la piena luce, verso la beata eternità”.

Polacchi e tedeschi: riconciliazione e perdono sono possibili

Nel suo saluto ai polacchi, si è rivolto in particolare agli organizzatori e ai partecipanti alla conferenza dedicata al messaggio di riconciliazione che i vescovi polacchi inviarono ai vescovi tedeschi sessant'anni fa e che cambiò la storia dell'Europa. 

Il Santo Padre ha incoraggiato affinché le parole di quel documento — ’Perdoniamo e chiediamo perdono’ — “siano una testimonianza per i popoli oggi in conflitto che la riconciliazione e il perdono sono possibili quando nascono da un reciproco desiderio di pace e da un impegno comune, sincero, per il bene dell'umanità. Vi benedico tutti!”.”.

Lo stesso ha affermato ai pellegrini di lingua tedesca, salutando i partecipanti alla stessa conferenza sul tema ‘Riconciliazione per l'Europa’. “Vi ringrazio per questo importante evento e incoraggio tutte le persone di buona volontà a lavorare per la riconciliazione e la pace tra i popoli”.

Cultura della morte: guardare a Gesù

Nella sua esposizione iniziale della catechesi, Leone XIV ha osservato che la cultura attuale tende a evitare di pensare alla morte, ma ha invitato a guardare a Gesù, che è passato dalla morte alla vita.

“Come esseri umani, siamo consapevoli che la nostra vita qui sulla terra avrà una fine. La nostra cultura attuale tende a temere la morte e cerca di evitare di pensarci, ricorrendo persino alla medicina e alla scienza alla ricerca dell'immortalità. Tuttavia, il brano evangelico che abbiamo appena ascoltato ci invita a guardare con speranza all'alba della Resurrezione”.

Gesù è passato dalla morte alla vita come primizia di una nuova creazione. “La luce della sua vittoria illumina la nostra mortalità, ricordandoci che la morte non è la fine, ma un passaggio da questa vita all'eternità”, ha sottolineato.

Non temere la morte: un invito a esaminare le nostre vite

Pertanto, “la morte non è qualcosa da temere, ma un momento per cui prepararsi”, ha incoraggiato. “È un invito a esaminare le nostre vite e a vivere in modo tale che un giorno potremo partecipare non solo alla morte di Cristo, ma anche alla gioia della vita eterna”.

“Per chi crede nella Resurrezione di Cristo, la morte non è la fine, ma l'inizio dell'eternità. Come pellegrini di speranza in questa vita, camminiamo verso la sua pienezza nella Casa del Padre”, ha detto il Papa ai pellegrini di lingua portoghese. 

E a coloro che parlano arabo: “Vi invito a riflettere sul mistero della morte e della vita con speranza, sapendo che Cristo risorto ci ha preceduto nella prova della morte, l'ha vinta e ci ha aperto le porte della vita eterna”.

Avvento e la Vergine Maria di Loreto

In diverse occasioni, il Papa ha anche invitato a “chiedere al Signore Risorto, in questo tempo di Avvento, di renderci sentinelle che preparano e accelerano il trionfo finale del suo Regno, il Regno dell'Amore” (in lingua francese).

Infine, ai romani e ai pellegrini di lingua italiana, ha ricordato che “oggi celebriamo la memoria della Santissima Vergine Maria di Loreto. Cari giovani, imparate ad amare e ad aspettare nella scuola di Maria; cari malati, che la Santissima Vergine sia vostra compagna e conforto nella vostra sofferenza; e voi, cari sposi novelli, affidate il vostro cammino matrimoniale alla Madre di Gesù.

L'autoreFrancisco Otamendi

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Ecologia integrale

Matteo Visioli, sugli abusi di potere e di coscienza: “Ora riconosciamo i problemi che prima non vedevamo”

L'ex sottosegretario della Congregazione per la Dottrina della Fede spiega il significato di la recente riforma del Codice di Diritto Canonico per evitare abusi di potere e di coscienza.

Javier García Herrería-10 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

Il professor Matteo Visioli è sacerdote della diocesi di Parma e docente presso l'Università Gregoriana. Tra il 2017 e il 2022 è stato Sottosegretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. È esperto di diritto canonico e voce autorevole nel dibattito sulla giustizia e la riforma penale nella Chiesa. Recentemente, Visioli ha visitato la Spagna per partecipare al XVII Simposio Internazionale dell'Istituto Martín de Azpilcueta dal titolo “La libertà come bene giuridico nella Chiesa. I doni gerarchici e carismatici nella riflessione canonica”.

Abbiamo intervistato il professore per comprendere meglio come la recente riforma del Codice di Diritto Canonico miri a tutelare la libertà dei fedeli e a punire gli abusi di autorità. Analizzeremo cosa costituisce il reato di abuso di potere e quali sono i meccanismi penali che la Chiesa ha rafforzato per garantire che l'esercizio dell'autorità sia sempre un servizio, mai un'oppressione.

Nel 2021 la Chiesa ha modificato alcuni canoni del Libro VI del Codice di Diritto Canonico. Qual è la ragione?

—La Chiesa aggiorna le sue leggi per punire quando qualcuno esercita l’autorità limitando ingiustamente la libertà di un fedele. Tra queste norme ce n’è una particolarmente importante, una sorta di “norma generale”, che vale per tutti i casi di abuso di potere non descritti in modo specifico in altri luoghi del Codice di Diritto Canonico.

Quando si considera che l’autorità ha oltrepassato il limite?

—Quando passa da un uso prudente e ragionevole del suo potere — ciò che chiamiamo uso discrezionale — a un comportamento autoritario o arbitrario. In quel momento non si tratta più semplicemente di un cattivo esercizio, ma diventa un vero e proprio delitto canonico.

Si sanziona solo se l’autorità agisce con cattiva intenzione?

—E qui sta l’aspetto più sorprendente: no. Questo canone considera colpevole non solo chi abusa del potere deliberatamente, ma anche chi lo fa per negligenza. Cioè, anche se la persona non voleva causare un danno, ma la sua incuria o la sua cattiva gestione provoca un danno reale a un fedele o a una comunità, commette comunque un delitto.

È abituale nel diritto penale canonico?

—No, è molto eccezionale. In generale, perché ci sia un delitto in ambito canonico si richiede che la persona abbia agito con intenzione. Ma questo è uno dei pochi casi in cui la colpa, la negligenza, è sufficiente perché l’autorità sia considerata responsabile.

E come è regolato questo nel Codice?

—Con canoni molto generali. È un tema delicato e il Codice lo tratta con poche norme, ma molto ampie, proprio perché vuole comprendere tutti i possibili abusi di potere. Il problema è che un canone così generale è rischioso, perché l’autorità ecclesiastica può avere paura di sbagliare, di commettere un errore. Soprattutto quando, di fronte a una disposizione o a un atto di governo, entra in gioco una questione di coscienza. Per esempio, un superiore può nominare come responsabile di un monastero un religioso sotto la sua autorità, ma se questi afferma che ciò va contro la sua coscienza, si crea una tensione rischiosa e delicata.

Si paralizzerebbe così un’azione di governo di un’autorità legittima che potrebbe essere accusata di un delitto penale. Il problema, qui, è il passaggio da un atto amministrativo — io nomino una persona, oppure dispongo la soppressione di una parrocchia — a un atto penalmente rilevante. Questo è il rischio di una norma generale con applicazione penale.

Come si concilia il concetto di legge penale con l’esercizio della carità nella Chiesa?

—Questo “iuris puniendi”, cioè il diritto di punire, può sembrare contraddittorio rispetto all’immagine della Chiesa Madre, della Chiesa misericordiosa. Il diritto penale, in generale, deve essere letto alla luce della natura propria della Chiesa. 

La finalità delle pene è spiegata nel Codice di Diritto Canonico: la prima è il ristabilimento della giustizia,. Poi c’è la correzione del reo, infine la riparazione dello scandalo. Ciò comporta anche la riparazione del danno: se io danneggio una persona o una comunità, devo riparare quel danno.

Il diritto penale non è vendicativo, non cerca di punire per punire, ma protegge la comunità da eventuali fratture o divisioni, e aiuta a prendere coscienza del male commesso e a correggersi. La legge penale non è mai perfetta, ma offre un orizzonte di giustizia che il legislatore considera necessario per il bene della Chiesa, il bene dei fedeli, la salvezza delle anime: questa è la sua vera finalità. 

La Chiesa sta evolvendo nella sua sensibilità nel rilevare gli abusi di potere?

—Negli ultimi anni, sotto il pontificato di Papa Francesco, ci sono stati molti interventi, soprattutto in ambito penale, a causa delle emergenze create dalle accuse di abuso. Non si tratta di fatti nuovi, ma di fatti antichi, tuttavia la consapevolezza di questi abusi è nuova, anche perché è aumentata la sensibilità su questi temi.

È qualcosa di positivo, seppure molto doloroso. Positivo perché i tempi di oggi sono migliori di quelli di allora, nel senso che ora riconosciamo problemi che prima non vedevamo. Certo, la legge penale non può essere la risposta definitiva e unica: è uno strumento, ma la Chiesa deve lavorare soprattutto sulla formazione, sulla prevenzione e sulla formazione delle coscienze.

Cosa è cambiato concretamente nel diritto canonico?

—Il diritto penale fa la sua parte, ma non si può confidare solo in esso per risolvere tutti questi problemi. Una delle novità del recente Libro VI del 2021 — che è il libro che contiene le norme penali della Chiesa — è proprio questa: aprire la possibilità di imputare alcuni soggetti, anche laici che abbiano un ufficio, un’autorità o un potere nella Chiesa. L’intento è segnalare l’abuso che consiste nel passare dalla discrezionalità legittima di una scelta all’arbitrarietà che produce un danno.

Questo lo possono fare anche i laici, e dunque anche i laici diventano imputabili perché detengono un ufficio, un potere, una potestà. E questo, credo, è un passo avanti. Penso, ad esempio, ai moderatori di molti movimenti laicali e associazioni. Penso a coloro che esercitano uffici nella Chiesa: sotto il pontificato di Papa Francesco molti laici hanno assunto incarichi importanti di governo e, giustamente, insieme agli uffici, assumono anche la responsabilità che le loro scelte non siano arbitrarie, ma rispettose della libertà e della coscienza dei fedeli.

Come può migliorare la Chiesa per evitare gli abusi di potere e di coscienza?

—Ci sono tre antidoti all’abuso di potere. In primo luogo, la formazione della coscienza. Poi, la trasparenza: quando un’autorità prende una decisione, un antidoto perché questa decisione non sia abusiva è analizzare le reali motivazioni con trasparenza. Perché ho deciso questo? 

E il terzo antidoto è un governo più collegiale, più sinodale: l’autorità ha la responsabilità della decisione, ma, per prendere una decisione, è meglio non farlo da sola ed essere più esposta al rischio di abuso; è meglio condividerla con collaboratori o con la stessa comunità. La responsabilità è sempre dell’autorità, non diventa collegiale, ma il discernimento, la valutazione dei casi, può essere collegiale: e così si protegge di più dal rischio di abuso. 

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Evangelizzazione

Guadalupe: il cuore del Messico

Le apparizioni della Vergine a Juan Diego nel 1531 sul Tepeyac trasformarono la fede e l'identità religiosa del Messico, dando origine alla Vergine di Guadalupe e al suo significato per i popoli indigeni ed europei.

Gerardo Ferrara-10 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

Il 12 dicembre si celebra una data importantissima per il Messico e tutto il continente americano: le apparizioni mariane di Guadalupe (1531).

C’è persino un detto: un messicano può anche non essere cristiano, ma certamente è guadalupano. Proviamo a capire perché.

Il contesto

Prima dell’arrivo degli spagnoli, i mexica, anche noti come aztechi, avevano dominato circa trecento tribù e popoli della regione mesoamericana. Gli spagnoli furono impressionati dalle loro grandi città, dagli acquedotti, dai sistemi di canalizzazione delle acque e dalla loro organizzazione politica, ma soprattutto, dall’accuratezza con cui i mexica osservavano e registravano i movimenti celesti.

Tale conoscenza accuratissima dell’astronomia era legata alla loro concezione religiosa del cosmo. Tutto, per loro, era sacro e l’equilibrio dell’universo si basava su una serie di rituali fondamentali, tra cui i sacrifici umani.

Nel variegato pantheon mexica figuravano divinità quali Huitzilopochtli, Quetzalcoatl, Coatlicue ed altri.

Huitzilopochtli era la divinità principale: legato al sole e alla guerra, era rappresentato come un essere feroce. I mexica pensavano che fosse necessario, per far sorgere il sole ogni mattina, nutrire Huitzilopochtli con il sangue e le viscere delle vittime di sacrifici umani perché il dio non divorasse il sole stesso.

La madre di Huitzilopochtli (e madre “collettiva”) era Coatlicue, che in nahuatl significa “vestita di serpenti”. Nell’immaginario nahua (termine che definisce tutti i popoli parlanti la lingua nahuatl, tra cui i mexica) il serpente è simbolo di fertilità e Coatlicue era una divinità ambivalente: madre della terra e dei viventi da un lato, distruttrice dall’altro.

Huitzilopochtli aveva il suo tempio Mayor dove ora sorge la cattedrale di Città del Messico, nel Zócalo. Sua madre Coatlicue, invece, l’aveva probabilmente su un colle chiamato Tepeyac.

Con la caduta di Tenochtitlan, nel 1521, per opera non solo degli spagnoli ma anche di altri popoli nahua opposti ai mexica e alleatisi con gli europei per sconfiggere i loro dominatori, si aprì per i mexica un periodo che, in nahuatl, è detto nepantla: “stare in mezzo”. Si sentivano infatti come “sospesi”, senza radici e senza più i loro punti di riferimento culturali e religiosi. Con i templi abbattuti e l’impossibilità di perpetuare sacrifici umani, si arrestava anche, per loro, la possibilità che il mondo andasse avanti.

L’arrivo degli spagnoli, poi, fu interpretato come la fine del Quinto Sole. I mexica credevano, infatti, che la storia dell’universo fosse divisa in cinque Soli (Tonatiuh), ognuno destinato a finire con una catastrofe. Gli “uomini con la pelle chiara venuti da oriente” coincidevano con il ritorno del dio Quetzalcóatl, e le loro armi, i cavalli, le epidemie e la caduta di Tenochtitlán segnavano appunto la fine dell’era del Quinto Sole, cioè del loro ordine sacro, politico e cosmico.

Eppure il sole continuava a sorgere.

Arriva la Madre

In quell’epoca drammatica, Juan Diego Cuauhtlatoatzin, un nahua convertito al cristianesimo, di origine nobile ma povero, camminando all’alba alle pendici del colle Tepeyac, lo stesso dove un tempo si venerava la dea madre nahua Coatlicue (o comunque una divinità femminile chiamata Tonantzin, “nostra cara madre”, che potrebbe essere un titolo attribuito Coatlicue), si sentì chiamare da una dolce voce di donna che parlava in nahuatl, usando un registro poetico e rituale (il nahuatl è una lingua estremamente complessa con diversi registri colloquiali tra i parlanti, a seconda della classe sociale o del grado affettivo o di parentela).

La donna lo chiamò Juandiegotzin (come dire: Juandieguito) e gli rivolse appellativi come noicnocahuatzin, noconetzin (“mio amatissimo, mio piccolissimo figlio”), forme linguistiche delicate, tipicamente mexica che oggi ritroviamo nello spagnolo messicano (hijito, ecc.).

Juan Diego non capì subito di chi si trattasse, perché le fattezze meticce di quella figura femminile non corrispondevano all’immagine della Vergine come gliel’avevano mostrata i missionari spagnoli. Lo comprese quando la donna, vestita alla maniera di una principessa nahua, gli si presentò come la sempre Vergine Maria, Madre del vero Dio.

Le apparizioni

Qui daremo solo una sintesi cronologica delle cinque apparizioni:

Qui forniremo solo una sintesi cronologica delle cinque apparizioni:

  • 9 dicembre 1531 (prima). La Vergine appare a Juan Diego sul colle di Tepeyac, chiedendogli di riferire al vescovo di farle costruire una chiesa.
  • 9 dicembre (seconda). Juan Diego torna dalla Vergine dopo il rifiuto del vescovo; lei lo incoraggia a insistere.
  • 10 dicembre (terza). Il vescovo chiede un segno; e la Vergine lo promette al veggente.
  • 12 dicembre (quarta). La Vergine fa raccogliere a Juan Diego delle rose di Castiglia fiorite miracolosamente e in seguito imprime la sua immagine sul mantello del veggente (tilma).
  • 12 dicembre (quinta). La Vergine appare un’ultima volta a Juan Diego e gli promette di proteggerlo, annunciandogli che suo zio Juan Bernardino, malato, è guarito. Appare anche allo zio stesso, presentandosi per la prima e unica volta con il titolo con cui è celebre (“di Guadalupe”).

Le parole pronunciate dalla Signora del Cielo

La donna delle apparizioni disse, in nahuatl (Nican Mopohua, n. 26-28), tra le altre cose:

“Nicuicahua in noisotlaxōchīuh, nicān nicān niquīz;
Nehuatl in teteoh īnantzin, in tloque nahuaque,
in īpalnemoāni, in teyocoyani;
nicān nimitstlatlauhca, nimitstlatlauhtiliz:
nicān niquimati in notech monequi in notech nehua;
nicān nimitzmotlaloa,
ca ni in monantzin,
in monantzin nochtehuān,
a Monantzin a Tlalticpactlacatl,
in monantzin in nochi in intlācah».

Che significa

“Io sono la Madre di Teteoh (il Dio vero dei teōtl, cioè la Divinità di cui tutte le altre sono emanazione),
di Tloque Nahuaque (Colui che possiede tutto ciò che esiste),
di Ipalnemoani (Colui per cui gli uomini vivono),
di Teyocoyani (Colui che crea le persone).
Io sono vostra Madre,
la Madre di tutti voi che vivete su questa terra,
e la Madre di tutti gli uomini e i popoli che mi invocheranno, mi ameranno e in me confideranno.”

Le sue parole più famose, però sono le seguenti:

“Ascolta, figlio mio, il più piccolo, il più piccolo tra i miei figli:
non si turbi il tuo cuore, non temere.
Non sono forse io qui, che sono tua Madre?
Non sei sotto la mia ombra e la mia protezione?
Non sono io la fonte della tua gioia?
Di che cosa hai bisogno ancora?”

Sul Tepeyac appariva a un mexica una Madre del tutto diversa da Coatlicue, un tempo lì venerata. Questa nuova madre era dolce e rispettosa, come quella che apparve a Bernadette nel 1858, parlando pure la lingua della veggente, e in modo così gentile che Bernadette riferì che la Signora le aveva parlato “come una persona parla a un’altra persona” (la poverina non era abituata ad essere trattata così).

La Guadalupana si proclamò non solo madre del vero e perfetto Dio, ma anche di Juan Diego e di tutti gli uomini e i popoli che l’avrebbero invocata e che sarebbe stata disposta ad ascoltare, consolare, proteggere e guidare.

Guadalupe

Perché la Vergine apparsa a Juan Diego è conosciuta come “di Guadalupe”?

Due elementi da precisare: la Signora non usò mai questa espressione con lui; la Vergine di Guadalupe “originale” è in Estremadura (Spagna), ed è legata alla Reconquista e alle spedizioni verso il Nuovo Mondo, tanto che Colombo e molti conquistadores di quella regione (Cortés, Pizarro) erano devoti a lei e ne portarono il nome nelle Americhe.

Se oggi conosciamo la Vergine del Tepeyac con questo titolo è forse a causa di una distorsione fonetica, legata anche a un’interpretazione europea. Il 12 dicembre 1531, infatti, anche lo zio di Juan Diego, Juan Bernardino, che si trovava in casa malato, ebbe un’apparizione della Vergine che gli si sarebbe presentata dicendo:

“Nican nicā Tepēuh ican nicā Tequantlazopeuh”
“Sono Colei che nasce / appare sul colle, Colei che schiaccia il serpente”

Probabilmente, quindi, nel momento in cui sia Juan Diego sia suo zio riferirono l’episodio, gli spagnoli che non parlavano nahuatl intesero Tequantlazopeuh come fosse De Guadalupe. O gli indigeni, conoscendo la venerazione degli europei per la Vergine de Guadalupe, associarono tale titolo a colei che si era definita Tequantlazopeuh.

Il significato, tuttavia, fu chiarissimo sia per indigeni che per europei: per gli uni quella Madre schiacciava il serpente, superando e sostituendo la divinità venerata su quel colle; per gli altri, vinceva il male e compiva la profezia di Genesi 3,15.

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Evangelizzazione

I silenzi di San Giuseppe: imparare a vivere come lui

In un mondo che applaude solo ciò che è visibile, San Giuseppe ci ricorda la forza del silenzio, la grandezza di custodire senza possedere e la santità di coloro che sostengono la vita dall'ombra, senza cercare applausi né occupare il centro della scena.

Diego Blázquez Bernaldo de Quirós-10 dicembre 2025-Tempo di lettura: 7 minuti

Viviamo tempi difficili: famiglie distrutte, crisi della paternità, paura del futuro, incertezza lavorativa, stanchezza spirituale. Eppure, la liturgia dell'Avvento ci propone, quasi in punta di piedi, la figura di un uomo di cui non conserviamo nemmeno una sola parola: san Giuseppe.

La Chiesa non ha esitato a presentarci San Giuseppe come Patrono della Chiesa universale dal 1870, e recentemente i Papi vi sono tornati più volte, sottolineandone la paternità umile, forte e creativa. 

C'è qualcosa di molto suggestivo in questo periodo dell'Avvento: addobbiamo le strade con le luci, facciamo progetti, pensiamo ai regali... ma il Vangelo ci presenta, quasi senza fare rumore, un uomo che sembra passare inosservato: san Giuseppe.

In un mondo in cui sembrano esistere solo coloro che fanno rumore, José è il patrono di tutti coloro che sostengono la vita dalla seconda fila: genitori che non compaiono su nessun manifesto, nonni che fungono da rete di sicurezza, lavoratori anonimi, religiose in piccole comunità, laici che prestano servizio in umili parrocchie... tutti coloro che, se falliscono, fanno crollare tutto, ma che quasi mai compaiono nella foto.

Questo articolo parla di lui. E, soprattutto, di noi con lui.

San José, un uomo che ascolta nella notte

Il Vangelo lo definisce con una sola parola: “giusto” (Mt 1,19). Cioè, un uomo che vive rivolto a Dio, che prende sul serio la sua volontà, anche se non la comprende appieno.

Non conserviamo nemmeno una sua parola. Niente. Eppure Dio gli affida suo Figlio e la Vergine Maria. E questo smonta molte delle nostre idee sul “successo” di oggi, sull'influenza e sul protagonismo.

Inoltre, c'è un dettaglio prezioso nella vita di San Giuseppe: le grandi decisioni della sua vita arrivano di notte, nei sogni. Di notte viene a sapere che deve accogliere Maria. Di notte gli viene detto di fuggire in Egitto. Di notte sa quando tornare.

Non ci sono discorsi, né grandi ragionamenti, né dialoghi drammatici. C'è silenzio, ascolto e obbedienza. In un'epoca come la nostra, saturata di rumore, opinioni e chiacchiere incessanti, la figura di Giuseppe è scomoda perché ci riporta all'essenziale: prima di decidere, bisogna ascoltare.

Quando la vita si complica, noi ci riempiamo di rumore: messaggi, telefonate, opinioni, social network, “consulenze” da tutte le parti... José, invece, entra in silenzio. Ascolta. Discernere. E poi agisce.

I Padri della Chiesa insistevano sul fatto che la vera grandezza di Giuseppe non sta nella carne, ma nella fede: egli è padre perché si affida a Dio, perché si mette totalmente al servizio del piano divino a favore di Gesù e Maria. La tradizione ci ricorda che il suo “sì” non è meno radicale di quello della Vergine: anche lui accetta, senza comprenderlo appieno, un cammino che sconvolge i suoi progetti umani.

In una cultura che confonde la libertà con la costante improvvisazione, Giuseppe ci insegna una libertà diversa: la libertà di obbedire a Dio quando i suoi piani contraddicono i nostri.

Paternità senza appropriazione: custodire senza possedere

Una delle caratteristiche più sorprendenti che la Chiesa vede in Giuseppe è il suo modo di esercitare la paternità: fermo, ma non dominante; presente, ma non invadente; responsabile, ma senza appropriarsi né di Gesù né di Maria.

José è uno specchio scomodo e luminoso allo stesso tempo.

Dio affida Gesù e Maria a lui, ma egli non si mette al centro. Si prende cura, protegge, decide, lavora... ma non si appropria mai. Sa che quel Bambino non è un suo progetto. Avrebbe potuto sentirsi in secondo piano, ma sceglie di essere custode, non proprietario.

I Papi hanno descritto Giuseppe come un “padre nell'ombra”: l'ombra non è oscurità, è la presenza discreta che permette all'altro di essere al centro. 

In tempi di narcisismo sfrenato, di “io” gonfiati a colpi di selfie e like, la figura di San Giuseppe, un uomo che scompare affinché Cristo possa risplendere, è profondamente controculturale.

Questo ha un enorme potere oggi:

  • Ai genitori: José ricorda loro che i figli non sono un “progetto personale”, ma un mistero affidatoci. Non sono un prolungamento del proprio ego, ma persone chiamate a una vocazione che spesso supererà le nostre aspettative.
  • Per coloro che esercitano autorità nella Chiesa: superiori, parroci, vescovi, laici in missione. La paternità o maternità spirituale non è mai dominio sulle coscienze, ma servizio affinché nell'altro maturi la libertà dei figli di Dio. Gli abusi di potere e di coscienza che oggi feriscono tanto la Chiesa nascono, in fondo, dall'aver dimenticato questo stile di Giuseppe: custodire senza possedere.
  • Per qualsiasi forma di leadership cristiana: Giuseppe mostra un'autorità che non si autoafferma, ma protegge, sostiene e, quando arriva il momento, sa farsi da parte.

Perché gli abusi di potere, di coscienza, persino gli abusi spirituali che hanno causato tanto danno, nascono proprio dal contrario: da persone che si appropriano delle anime, delle storie, delle decisioni altrui. Vogliono essere padroni laddove è stato loro chiesto solo di essere custodi.

San José è invece l'immagine di colui che sostiene senza schiacciare, che orienta senza manipolare, che guida senza incatenare. Ciò richiede molta umiltà. E molta fede.

Sant'Agostino diceva che San Giuseppe è padre “più per carità che per carne”. È padre perché ama lasciando liberi, perché la sua autorità è simile a quella di Dio: un'autorità che non schiaccia, ma solleva.

Coraggio creativo: non solo resistere, ma anche fare la prima mossa

A volte immaginiamo la santità come il sopportare con rassegnazione tutto ciò che accade. Ma non è così. Guarda Giuseppe: quando l'angelo gli dice di fuggire in Egitto perché Erode sta cercando il Bambino, lui si alza di notte, prende il Bambino e sua Madre e se ne va. Senza drammi, senza indugi, senza discorsi. Agisce.

La tradizione recente della Chiesa lo ha definito “coraggio creativo”: saper cercare nuove strade quando le cose vanno male, senza perdere la fiducia in Dio.

Non è proprio quello che spesso ci manca?

  • Coppie in crisi, ma che non si arrendono: cercano aiuto, cambiano abitudini, ricominciano da capo.
  • Giovani che non si limitano a lamentarsi della mancanza di lavoro, ma cercano di formarsi, intraprendere nuove iniziative, uscire dalla propria zona di comfort.
  • Comunità cristiane che, invece di lamentarsi del fatto che non vanno più tante persone a messa, si chiedono come andare incontro alle persone, come aprire spazi di ascolto, come accompagnarle meglio.

Giuseppe non si limita a subire le circostanze. Le affronta. Le supera. Ha fiducia, sì, ma usa anche la testa e le mani. Questo equilibrio ci farebbe molto bene: pregare di più, sì, ma anche alzarci di più, parlare più chiaramente, muoverci di più.

Il laboratorio di Nazareth e il nostro lavoro oggi

C'è una scena che il Vangelo non racconta, ma che l'immaginazione cristiana ha meditato per secoli: Gesù nella bottega con Giuseppe, mentre impara il mestiere. Il Figlio di Dio, con uno scalpello in mano, sollevando segatura, ascoltando il suo padre terreno che gli spiega come sistemare una trave.

Non è uno scandalo meraviglioso? Dio stesso fatto uomo che impara a lavorare con un altro uomo.

In quella scena silenziosa viene valorizzato il lavoro di milioni di persone: quello dell'addetto alle pulizie, dell'infermiera notturna, della madre che non si ferma mai a casa, dell'insegnante che si impegna al massimo in classe, dell'operatore telefonico in un call center, del sacerdote che passa il pomeriggio ad ascoltare le persone nel suo ufficio, della suora che si prende cura degli anziani.

Non tutti i lavori saranno brillanti, da sogno o stabili. A volte saranno precari, mal pagati, ripetitivi. Ma José ci ricorda qualcosa di molto liberatorio: il valore del tuo lavoro non dipende dagli applausi che ricevi, ma dall'amore con cui lo fai e da chi lo offri.

Forse quest'Avvento potremmo guardare al nostro lavoro, qualunque esso sia, come a quel piccolo laboratorio di Nazareth dove si santifica il quotidiano.

San Giovanni Paolo II sottolineava che in Giuseppe si rivela la dignità del lavoro umano come partecipazione all'opera del Creatore e come servizio alla vita della famiglia.

In un mondo in cui tanti si sentono “scartati” professionalmente – over 50, giovani senza opportunità, persone con lavori invisibili – José diventa patrono, esempio e compagno di viaggio.

Una Chiesa fragile tra le braccia di un padre

La Chiesa ha dichiarato San Giuseppe Patrono della Chiesa universale. Non è un titolo decorativo. È un modo per dire che la Chiesa di oggi assomiglia molto al Bambino Gesù tra le sue braccia: fragile, minacciata, bisognosa di protezione e allo stesso tempo portatrice di qualcosa di immenso che non è suo, ma di Dio.

Viviamo tempi di ferite dolorose nella Chiesa: scandali, abusi, disillusione, sfiducia. A volte viene voglia di prendere le distanze, o di vivere la fede “in privato” per non complicarsi la vita.

Ma Giuseppe non abbandona il Bambino quando la situazione si complica. Non si tira indietro quando compaiono Erode, i pericoli, le notti di fuga. Proprio allora è in gioco la sua missione.

Prendersi cura oggi della Chiesa – ciascuno dal proprio posto – è molto giuseppino: difendere l'essenziale, proteggere i più deboli, non entrare nei giochi di potere, non relativizzare il male, ma nemmeno perdere la speranza. Non significa chiudere gli occhi davanti alle ferite, ma impegnarsi per guarirle.

E qui forse è opportuno dire chiaramente una cosa: la Chiesa uscirà da questa crisi soprattutto grazie alla santità silenziosa di molti “Giuseppe” anonimi. Di religiose che vivono con fedeltà la loro dedizione. Di laici che fanno bene il loro lavoro ed educano bene i propri figli. Di sacerdoti che servono senza fare rumore. Di coppie sposate che si perdonano settanta volte sette.

Vivere come Giuseppe in questo Avvento

Cosa significa, in pratica, vivere questo Avvento “con San Giuseppe”?

  1. Lasciare che Dio entri nei miei piani

Come Giuseppe, Dio “interrompe” anche i nostri progetti: una malattia, un cambiamento inaspettato, una crisi nel matrimonio, un fallimento professionale. L'Avvento è il momento di chiedersi con sincerità: Sono disposto a lasciare che Dio cambi i miei piani, o voglio solo che benedica quelli che ho già realizzato?

  1. Esercitare l'autorità come servizio

Genitori, educatori, responsabili nella Chiesa, capi squadra: tutti abbiamo bisogno di imparare lo stile di Giuseppe. Più presenza e meno controllo; più ascolto e meno imposizione; più esempio e meno moralismo.

  1. Riconciliarmi con la mia storia

La nascita di Gesù non avviene in uno scenario perfetto: ci sono censimenti, spostamenti, precarietà, una mangiatoia come culla. Dio non aspetta che la vita sia “ordinata” per manifestarsi. San Giuseppe ci aiuta a guardare alla nostra biografia - con le sue ferite, i suoi limiti e i suoi peccati - non come un ostacolo, ma come il luogo in cui Dio vuole nascere. 

  1. Rivalutare il lavoro nascosto

Quel rapporto che nessuno apprezza, quelle ore trascorse in cucina, l'accompagnare un malato, quello studio silenzioso, quel turno di guardia in ospedale, quella notte in bianco con un figlio... Sono il laboratorio di Nazareth oggi. Vissuti con Dio, sostengono il mondo.

Un santo per chi non compare nella foto

In una società in cui la visibilità viene confusa con l'importanza, la Chiesa ci presenta, in questo Avvento, un santo che ci ricorda qualcosa di molto semplice e liberatorio: non è necessario apparire nella foto per essere nel cuore della storia della salvezza.

Forse la cosa più attuale di San Giuseppe è proprio questa: è il santo di coloro che sostengono il mondo senza che nessuno se ne accorga.

Quelli che si alzano presto per andare al lavoro senza voglia, ma ci vanno comunque.

Quelli che sopportano una malattia senza lamentarsi tutto il giorno.

Quelli che si fanno in quattro per i propri figli, per i propri studenti, per i propri anziani.

Coloro che sono stati feriti dalla Chiesa, ma continuano ad amarla e a pregare per lei.

Coloro che, con i loro peccati e le loro fragilità, dicono ogni giorno: “Signore, eccomi; non capisco tutto, ma ho fiducia”.

Durante questo Avvento, mentre guardiamo il presepe, possiamo soffermarci un po' di più su quella figura che quasi sempre rimane sullo sfondo, con il bastone in mano, vegliando in silenzio. Non ha bisogno di parlare. La sua intera vita è già una parola.

E forse la nostra preghiera potrebbe essere semplice come questa:

San José, insegnami a stare dove Dio mi vuole, anche se nessuno mi vede, anche se non compaio nella foto, senza rumore, senza paura e senza voler essere il protagonista.

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Mondo

Oltre 11 milioni di persone hanno visitato Notre Dame dalla sua riapertura

Notre Dame de Paris ha celebrato il primo anniversario della sua riapertura il 7 dicembre con un traguardo importante. Più di 11 milioni di persone hanno visitato l'iconica cattedrale negli ultimi 12 mesi. Arrivano da numerose località del pianeta.

OSV / Omnes-10 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

– Caroline de Sury, Parigi, OSV News

Notre Dame de Paris è stata riaperta il 7 dicembre 2024, tra grande attesa, dopo oltre cinque anni di lavori. Prima dell'incendio, si stima che tra gli 8 e i 9 milioni di persone visitassero la cattedrale ogni anno. Ora, a un anno dalla riapertura, più di 11 milioni di persone hanno visitato l'iconica cattedrale in 12 mesi. 

La cattedrale è rimasta chiusa dal 15 aprile 2019, quando un incendio ha distrutto gran parte dell'emblematica struttura. È stata riaperta il 7 dicembre 2024, tra grande attesa. 

Per il rettore della cattedrale, monsignor Olivier Ribadeu Dumas, quest'anno è stato “estremamente arricchente”, oltre che “un anno di perfezionamento organizzativo”. “Abbiamo dovuto reimparare a gestire la cattedrale”, ha spiegato. “Abbiamo dovuto ricostruire quella che potremmo chiamare la ‘famiglia’ della cattedrale, che è cresciuta dopo i lavori di restauro’.

“L'impegno di tutti è impressionante: un volto sorridente”

Attualmente, la cattedrale impiega otto sacerdoti e un diacono, 45 membri del personale, 310 volontari attivi e oltre 50 persone responsabili delle operazioni di sicurezza della cattedrale. 

“Tutti sono animati dallo stesso desiderio di accogliere i visitatori”, ha spiegato Monsignor Ribadeau Dumas. “Sono colpito dall'impegno di tutti, compresi i fornitori di servizi esterni, nell'accoglierli con un sorriso, conferendo così alla cattedrale un volto sorridente”.

In media, ogni giorno la cattedrale accoglie tra i 30.000 e i 35.000 visitatori provenienti da tutto il mondo. 

I partecipanti alla cerimonia di riapertura della cattedrale di Notre Dame a Parigi, il 7 dicembre 2024, dopo l'incendio del 2019. (Foto di OSV News/Ludovic Marin, pool via Reuters).

“Prima di tutto, un luogo di preghiera”

“Questo non impedisce alla cattedrale di essere un santuario dove si possono trovare silenzio e pace”, ha affermato il rettore. “Tutti i nostri sforzi sono volti a introdurre i visitatori nel mistero di questa cattedrale, che è prima di tutto un luogo di preghiera”. 

Nel corso dell'anno sono state celebrate 1.600 funzioni liturgiche a Notre Dame, durante le quali i visitatori hanno continuato a passeggiare nelle navate laterali e dietro il coro. 

“Il loro numero è stato leggermente ridotto durante le funzioni per preservare la contemplazione dei fedeli”, ha spiegato il rettore.

Olivier Ribadeau Dumas, rettore-arciprete della
Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 10 aprile
del 2024 (Foto OSV News/Charlene Yves).

Anno record per i pellegrinaggi

Dalla sua riapertura, Notre Dame ha acquisito una nuova dimensione come meta di pellegrinaggio. “Si tratta di un fenomeno nuovo e in crescita”, ha dichiarato monsignor Ribadeau Dumas a OSV News. “Molte diocesi francesi organizzano ora pellegrinaggi a Notre Dame”. 

In totale sono stati effettuati più di 650 pellegrinaggi, un terzo dei quali provenienti dall'estero, inclusi 60 provenienti dal Nord America. 

Nostra Signora di tutta l'umanità

“Gli americani hanno sempre dimostrato grande interesse e generosità nei confronti di Notre Dame”, ha sottolineato Monsignor Ribadeau Dumas. “È importante che possano venire qui”. 

Per il rettore, la ricchezza di quest'anno è stata la diversità delle persone che sono entrate nella cattedrale. “Abbiamo ricevuto molti mecenati e capi di Stato con circa 600 visite protocollari”, ha detto. “Ma abbiamo accolto con la stessa attenzione molte persone anziane o malate, associazioni di persone con disabilità, in situazioni precarie o isolate. Nostra Signora è Nostra Signora dell'umanità, di tutta l'umanità”, ha sottolineato.

Luogo di pellegrinaggio con ingresso gratuito

Per il rettore è fondamentale che l'ingresso alla cattedrale rimanga gratuito e ha insistito sul fatto che i visitatori non devono essere classificati come turisti o pellegrini. 

“Molti di coloro che sono entrati come semplici visitatori sono usciti con un'esperienza veramente spirituale”, ha detto, riferendosi ai “frutti spirituali” delle visite a cui ha assistito quest'anno. 

“Non ci aspettavamo che arrivasse a tali estremi. Ciò che accade a ogni persona a Notre Dame è un segreto dello Spirito Santo, ma qualcosa accade. Alcuni ne sono rimasti profondamente colpiti”.

Un cavaliere dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro sostiene la corona di spine durante una processione che commemora il suo ritorno alla cattedrale di Notre Dame a Parigi, il 13 dicembre 2024 (Foto OSV News/Stephanie Lecocq, Reuters).

Il reliquiario della corona di spine

Secondo alcune testimonianze, il passaggio davanti al reliquiario della corona di spine, dietro il coro, ha profondamente commosso i visitatori durante tutto l'anno. 

“È la reliquia più importante del cristianesimo ed è molto suggestiva”, ha sottolineato il rettore. Monsignor Ribadeau Dumas ha proposto un cambiamento importante per il 2026, entrato in vigore il 5 dicembre. La corona di spine sarà ora esposta tutti i venerdì dell'anno, dalle 15:00 alle 18:30, e non più solo i venerdì di Quaresima e il primo venerdì del mese, come fino ad ora.

Il costo della corona di spine e il suo riscatto

La corona di spine, posta sul capo di Gesù dai suoi carcerieri per causargli dolore e deriderne la pretesa di autorità, fu acquistata da San Luigi, allora re Luigi IX di Francia, a Costantinopoli. Il prezzo nel 1239 fu di 135.000 sterline, quasi la metà della spesa annuale della Francia dell'epoca, secondo la BBC.

I vigili del fuoco e la polizia hanno formato una catena umana per salvare la corona di spine dall'inferno di Notre Dame il giorno dell'incendio del 2019. Il 13 dicembre 2024, questa reliquia, la più sacra della cattedrale di Parigi, è stata riportata nella sua sede sull'Île de la Cité.

Il 29 novembre 2025, il rettore della Cattedrale di Notre Dame di Parigi, Monsignor Olivier Ribadeau Dumas, ha benedetto questo grande presepe con 150 statuine provenzali. (Foto di OSV News/per gentile concessione della Cattedrale di Notre Dame).

Una stagione natalizia speciale

Molti visitatori sono rimasti colpiti anche dalla scoperta delle 29 cappelle laterali della cattedrale, completamente restaurate e ristrutturate con una nuova identità e coerenza.

Nel corso degli anni, i visitatori cinesi hanno scoperto la cappella di San Paolo Chen, in onore del seminarista cinese del XIX secolo, successivamente canonizzato da San Giovanni Paolo II. I messicani e altri latinoamericani hanno scoperto la cappella della Vergine di Guadalupe, rinnovata dopo la seconda guerra mondiale. Il 28 maggio è stata inaugurata una nuova cappella per cristiani orientali, che ospita otto icone. E l'8 novembre, l'icona restaurata della Madonna di Czestochowa è tornata nella sua cappella durante una messa per la comunità polacca.

“Tutti dovrebbero poter tornare a casa e dire: ‘questa è la nostra Notre Dame’”, ha affermato il rettore. 

Cattedrale vivente

A un anno dalla sua riapertura, Notre Dame è una «cattedrale viva», ha aggiunto. «Quando ho celebrato la messa lì per la prima volta un anno fa, ho sentito profondamente che queste pietre avevano assistito a secoli e secoli di preghiere prima delle mie. Da allora, pregando lì ogni giorno, so che sto continuando ciò che le generazioni che ci hanno preceduto hanno realizzato».

Il 29 novembre, il rettore ha benedetto un grande presepe con 150 statuine provenienti dalla Provenza, nel sud della Francia. Lo stesso giorno è stato inaugurato il mercatino di Natale nella piazza della cattedrale, che riunisce artigiani e creativi francesi. 

Di notte, la facciata illuminata di Notre Dame illumina una piazza piena di allegria, con musicisti e cantanti, dove degustazioni della tipica gastronomia francese deliziano tutti i presenti.

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Caroline de Sury scrive per OSV News da Parigi.

Queste informazioni sono state pubblicate originariamente su OSV News. È possibile leggerle all'indirizzo qui.

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L'autoreOSV / Omnes

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Zoom

L'Immacolata Concezione si ricopre di fiori

I vigili del fuoco hanno deposto una corona di fiori su una statua della Vergine Maria vicino a Piazza di Spagna a Roma, nel giorno dell'Immacolata Concezione.

Redazione Omnes-9 dicembre 2025-Tempo di lettura: < 1 minuto
Vocazioni

Renee Pomarico: «La nostra missione è andare incontro alle persone là dove si trovano»

Abbiamo parlato con Renee Pomarico, responsabile della comunicazione globale delle Consacrate del Regnum Christi, dell'identità del loro carisma nella Chiesa.

Javier García Herrería-9 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Il cammino di ogni istituzione ecclesiale è segnato dalla grazia, ma anche dalla fragilità umana. Per le consacrate del Regnum Christi, gli ultimi anni hanno rappresentato un profondo percorso di purificazione, dopo la dolorosa ferita lasciata dalla figura del loro fondatore, Marcial Maciel. Questa crisi non solo ha rappresentato un duro colpo alla fiducia, ma le ha anche costrette a un radicale esercizio di discernimento: separare la grazia fondazionale dalla debolezza del loro promotore.

Lungi dal lasciarsi paralizzare dal dolore, questo gruppo di donne ha scelto la fedeltà creativa e la speranza, intraprendendo un processo di rinnovamento che ha riportato la loro vita al centro dell'essenza del loro carisma: la consacrazione secolare per l'estensione del Regno di Cristo. Come si ricostruisce una vocazione dalle macerie di una crisi? E come riescono queste donne a portare la luce della loro fede nel mondo mantenendo lo sguardo fisso sulla missione?

Abbiamo parlato con Renee Pomarico, responsabile della comunicazione globale delle Consacrate del Regnum Christi, dell'identità del loro carisma nella Chiesa.

Quando qualcuno sente la parola «consacrata», pensa alla clausura. Ma le consacrate del Regnum Christi sono donne laiche che fanno voti privati. Come si spiega questo?

—Siamo una Società di Vita Apostolica. Facciamo voti privati di povertà, castità e obbedienza, dedicandoci totalmente a Cristo. Ma siamo laiche. Ciò significa che la nostra missione è quella di stare nel mondo, andare incontro alle persone là dove si trovano, nella loro vita concreta. Non siamo dietro un muro, ma in strada, in ufficio, in parrocchia... ovunque ce ne sia bisogno!

Il Regnum Christi (RC) è una federazione enorme. Come vi governate?

—Il RC è governato in modo collegiale. Al tavolo siedono i direttori generali dei Legionari di Cristo, i Laici Consacrati, noi e due laici scelti dal Collegio Direttivo Generale tra i laici eletti in una Convenzione Generale per le riunioni plenarie. È una forma di governo federata, laica e consacrata allo stesso tempo.

La sua missione sembra essere proprio quella di trovarsi a quel crocevia tra il secolare e il sacro. Qual è la chiave per essere fedeli al carisma?

—La ragione della nostra fedeltà sta nella fonte: la preghiera. Abbiamo impegni quotidiani fondamentali: un'ora di preghiera personale, la Messa, il Rosario, le preghiere comunitarie. Questo ci «abbraccia» e assicura che tutta la nostra azione apostolica – il lavoro nella catechesi, nell'evangelizzazione, nelle università – nasca da questa intimità con Cristo. In altre parole, siamo contemplative per essere evangelizzatrici.

E di cosa si occupano esattamente? Solo di questioni religiose?

—Dal punto di vista vocazionale, il carisma delle consacrate ci porta a lavorare professionalmente in qualcosa di evangelizzatore. Molte sono impegnate nell'azione pastorale nell'ambito del RC (giovani, adulti, scuole, ritiri, direzione spirituale). Altre invece lavorano nelle diocesi, nelle parrocchie o nelle università, sempre cercando di promuovere la vocazione di ogni persona.

Dove state vedendo i risultati più sorprendenti? C'è qualche luogo o progetto che vi sta dando risultati sorprendenti?

—Ci sono diversi «punti caldi». Da un lato, le missioni, quando sono ben organizzate, danno frutti immediati: conversioni del cuore, coscienza sociale. È un apostolato fondamentale.

D'altra parte, programmi come quello di Collaboratrici ECYD o RC, dove gli adolescenti possono trascorrere un'estate e i maggiori di 18 anni un anno aiutando in una missione, o l'IFC (International Formators Course) sono molto fruttuosi. Aiutano i giovani a chiedersi: «Chi sono e qual è la mia missione nella vita?».

Tra le opere educative figurano anche le Accademie di Lingua in alcuni paesi (Svizzera, Irlanda, Stati Uniti) che consentono agli studenti di risiedere lì per un anno e offrono una formazione completa 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in materia di fede, cultura e amicizia, con risultati molto abbondanti.

Parliamo di famiglia. So che è un tema fondamentale.

—Esatto. Vogliamo che la struttura del RC risponda meglio alle esigenze del matrimonio e della famiglia, il nucleo fondamentale. Apostolati come “Sponsus”, un seminario formativo per coppie sposate che si svolge durante un fine settimana, sono molto fruttuosi perché il mondo ha bisogno di vedere la grandezza dell'amore fedele. Inoltre, cerchiamo di accompagnare la famiglia in tutte le fasi: fidanzamento, lutto e, anche, con dolore, separazione.

Per concludere, qual è il contributo specifico delle Consacrate alla grande Federazione RC?

—Contribuiamo con la nostra identità femminile e il nostro dono di consacrazione laicale. Siamo un segno del Regno in mezzo alle realtà temporali. I nostri Statuti del RC lo dicono chiaramente: la nostra missione è promuovere e custodire la comunione, andare incontro alle persone e intraprendere le azioni che più contribuiscono al Regno di Cristo. È il nostro segno distintivo per l'arricchimento di tutti.

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Evangelizzazione

«De Arte Sacra», ovvero cosa hanno in comune una cattedrale e Starbucks

De Arte Sacra, il sito web creato da quattro amici che realizza sorprendenti collegamenti tra fede, arte e cultura contemporanea.

Javier García Herrería-9 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Sulla facciata romanica della Cattedrale di Lucca, scolpita nella pietra quasi mille anni fa, appare una figura sorprendente: una sirena con due code. Non si tratta di un ornamento capriccioso. Nella tradizione biblica e medievale — ispirata da San Girolamo e dalla sua lettura del profeta Isaia — la sirena simboleggia la seduzione che conduce al peccato: la voce che allontana da Dio e trascina verso una vita superficiale, vanitosa, “babilonese”.

Quella stessa immagine, la sirena con la doppia coda, è quella che milioni di persone vedono oggi ogni mattina sui bicchieri di Starbucks. Non è un caso. I fondatori hanno scelto quella figura perché esprime esattamente ciò che volevano trasmettere: l'irresistibile richiamo del caffè, una seduzione gentile ma potente che invita — o trascina — ad entrare.

Una sirena, due messaggi opposti. Quella di Lucca avverte: “Attenzione, questo può allontanarti dal bene”. Quella di Starbucks sussurra: “Arrenditi, non puoi resistere”. La prima libera. La seconda cattura. Ed entrambe, separate da secoli, ci raccontano la stessa cosa: l'eterna battaglia tra tentazione e libertà.

Questo tipo di connessioni —tra arte, teologia e cultura popolare— sono proprio quelle che mette in luce Arte sacra, un piccolo sito web realizzato nel tempo libero da quattro amici: due laici e due sacerdoti che amano mostrare come l'arte cristiana continui a parlare al mondo di oggi.

Origini, obiettivi e finanziamento

Enrique Sañoso spiega che “il progetto è nato alcuni anni fa in modo del tutto naturale, come risultato di una preoccupazione condivisa da diversi amici. Ognuno di noi ha un modo diverso di percepire il mondo e di scrivere. David dialoga maggiormente con il mondo contemporaneo, Ferran ha un approccio più diretto e pastorale, Marcel è sintetico e va nei dettagli, mentre forse nel mio caso ho una certa debolezza per far parlare i testi sfruttando l'attualità... insomma, ci completiamo a vicenda”. 

Uno dei suoi obiettivi è quello di “offrire uno spazio di silenzio”. In un mondo così frenetico, caratterizzato dalla frenesia digitale, il sito web vuole essere “uno spazio contemplativo online. Sarebbe già un miracolo”, commenta David. “Nel silenzio si possono generare cose molto interessanti. Beh, in realtà penso che tutte le cose interessanti si generino nel silenzio. Se riusciamo a ottenere il silenzio, siamo riusciti ad aprire le porte dell'anima”. 

Marcel, dal canto suo, ritiene che il contenuto faciliti l'approfondimento della realtà e del Mistero. “A volte questa comprensione mi viene donata attraverso una conoscenza più profonda di un artista, delle Sacre Scritture o di un santo; altre volte, semplicemente, mi riconosco capace di guardare le cose con uno sguardo nuovo, come quello di chi cerca la persona amata in tutte le cose”, aggiunge.

Per quanto riguarda il finanziamento del sito web, al momento il progetto ha costi minimi. “Paghiamo noi stessi i costi del dominio”, spiega Ferrán, “anche se ci piacerebbe poter investire qualcosa per poter arrivare a più lingue e rendere il sito più internazionale. Stiamo cercando qualche donatore che condivida questa nostra preoccupazione”. 

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Da alcune settimane «De arte sacra» ha iniziato a pubblicare i propri contenuti su Instagram, nel tentativo di diffondere i propri contenuti in nuovi formati.

 
 
 
 
 
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Evangelizzazione

San Juan Diego, veggente della Vergine di Guadalupe e promotore della sua devozione

San Juan Diego Cuauhtlatoatzin era un indigeno messicano al quale apparve Nostra Signora nel 1531. Ambasciatore-messaggero di Santa Maria di Guadalupe, beatificato (1990) e canonizzato (2002) da San Giovanni Paolo II, la liturgia lo celebra il 9 dicembre. Tre giorni prima del 12, festa della Vergine di Guadalupe.

Francisco Otamendi-9 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Dopo il battesimo lo chiamarono Juan Diego, ma il suo nome originale era Cuauhtlatoatzin, che in azteco significa “colui che parla come un'aquila”. Era un contadino indigeno che ogni sabato, giorno dedicato dai missionari spagnoli alla catechesi, si recava dal suo villaggio a Città del Messico. 

Juan Diego, 57 anni, camminava su un terreno roccioso all'alba del 9 dicembre 1531, secondo il giorni dei santi vaticani. Giunto ai piedi del colle Tepeyac, fu attratto dal canto di un uccello che non aveva mai sentito prima. Poi il silenzio, e una voce dolce che lo chiamava: «Juantzin, Juan Diegotzin». 

L'uomo sale in cima alla collina e si trova di fronte a una giovane donna con un abito che brilla come il sole. Si inginocchia e la ascolta presentarsi: ‘Sono la perfetta e sempre Vergine Maria, la Madre dell'unico e vero Dio’.

Il vescovo chiede un segno 

La Signora affida un compito a Juan Diego: informare il vescovo di ciò che gli è accaduto affinché venga costruito un tempio mariano ai piedi della collina. L'arcivescovo di Città del Messico, fra Juan Zumárraga, non gli crede. Nel pomeriggio, la Signora invita Juan Diego a riprovare il giorno successivo. 

Questa volta il vescovo pone alcune altre domande sull'apparizione, ma rimane scettico e chiede un segno. Il contadino riferisce la richiesta alla Signora, che si impegna a dargli un segno il giorno seguente. 

Il contadino viene a sapere che suo zio malato sta morendo e va in cerca di un sacerdote. La mattina del 12, Juan Diego, all'altezza di Tepeyac, cambia strada per evitare di incontrare la Signora.

Ma la Vergine Maria gli si para davanti e gli chiede perché tanta fretta. Il contadino si getta a terra e chiede perdono. La Signora lo rassicura. Suo zio è già guarito, dice, e invita Juan Diego a salire sulla collina a raccogliere dei fiori da portare al vescovo, delle “rose di Castiglia”. Qualcosa di impossibile in pieno dicembre. 

L'indiano le raccoglie e le avvolge nella tilma, la coperta di tela ruvida che indossa, e si reca a Città del Messico. Juan Diego racconta i fatti al vescovo e dispiega la sua coperta davanti ai presenti. 

L'immagine della Vergine si riproduce sul mantello

Nello stesso istante, sulla tilma appare l'immagine della Vergine, l'icona venerata ovunque. Il vescovo si reca sul luogo delle apparizioni, dà inizio ai lavori e il 26 dicembre la prima cappella è pronta accanto alla collina.

San Juan Diego, vedovo da alcuni anni, chiede di poter abitare in una piccola casa vicino alla cappella. Per altri 17 anni, fino al 1548, continuerà a essere il custode della Signora, la Vergine morena. È possibile trovare una biografia più completa qui.

Il Santuario del Tepeyac, il cui cuore è costituito dalla Sacra Immagine della Vergine Maria di Guadalupe, è dal XVI secolo meta continua di pellegrini non solo della nazione messicana  ma di tutto il continente americano, spiega il Santuario.

L'autoreFrancisco Otamendi

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Vaticano

Il Papa prega affinché Maria riempia di speranza i credenti e apra oasi di pace

Nel celebrare la festa dell'Immacolata Concezione mentre si conclude l'Anno Giubilare, Papa Leone XIV ha pregato oggi a Roma affinché la “speranza giubilare” “fiorisca a Roma e in ogni angolo della terra”, portando con sé la riconciliazione, la non violenza e la pace.

CNS / Omnes-8 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

- Cindy Wooden, Roma (CNS) 

Papa Leone XIV ha pregato oggi davanti alla statua della Vergine Immacolata a Roma, come i suoi predecessori, pregando affinché Maria dia speranza ai credenti. E affinché “dopo le porte sante, si aprano ora altre porte di case e oasi di pace, dove la dignità possa rifiorire, si insegni l'educazione alla non violenza e si apprenda l'arte della riconciliazione”.

In piedi vicino a Piazza di Spagna, nel centro di Roma, ai piedi di un'imponente colonna sormontata da una statua di Maria, l'8 dicembre il Papa ha rivolto una preghiera a migliaia di romani, pellegrini e turisti.

Il pompiere Roberto Leo

All'alba di questa mattina, un pompiere di nome Roberto Leo, capo del dipartimento dei vigili del fuoco con più anni di servizio a Roma, ha salito 100 gradini di una scala aerea. Per posare una corona di fiori bianchi sulle braccia tese della statua, a circa 90 piedi dal suolo.

Seguendo una tradizione iniziata nel 1958 da San Giovanni XXIII, Papa Leone ha benedetto un cesto di rose bianche che i presenti hanno deposto ai piedi della statua. Ha poi letto una preghiera scritta appositamente per la festa di quest'anno, con riferimenti a ciò che sta accadendo nella Chiesa, nella città e nel mondo.

Che ora si aprano altre porte

A la preghiera A Maria, Papa Leone ricordò che l'anno giubilare aveva portato a Roma milioni di pellegrini. Rappresentanti di “un'umanità provata, a volte schiacciata, umile come la terra da cui Dio l'ha plasmata e in cui non cessa di infondere il suo Spirito di vita”.

“Guarda, o Maria, tanti figli e figlie in cui la speranza non si è spenta: fa” germogliare in loro ciò che tuo Figlio ha seminato, Lui, il Verbo vivente che in ogni persona chiede di crescere ancora di più, di prendere carne, volto e voce», ha pregato il Papa. .

Quando le Porte Sante delle basiliche maggiori di Roma stanno per chiudersi alla fine del Giubileo il 6 gennaio, ha detto che “altre porte si aprono ora. Porte di case e oasi di pace dove possa rifiorire la dignità, dove si insegni la non violenza, dove si impari l'arte della riconciliazione”.

“Nuove luci nella Chiesa”

Il Papa ha pregato affinché Maria “ispiri nuove luci nella Chiesa che cammina a Roma e nelle Chiese particolari che in ogni contesto raccolgono le gioie e le speranze, ma anche le tristezze e le angosce dei nostri contemporanei, specialmente dei poveri e di tutti coloro che soffrono”.

Papa Leone XVI ha anche espresso la speranza che il battesimo, che lava ogni persona dal peccato originale, “generi uomini e donne santi e immacolati. Chiamati ad essere membri viventi del Corpo di Cristo, corpo che agisce, consola, riconcilia e trasforma la città terrena dove si prepara la città di Dio”.

L'intercessione di Maria in un mondo pieno di cambiamenti

In un mondo pieno di “cambiamenti che sembrano coglierci impreparati e impotenti”, ha chiesto a Maria di intercedere e aiutare.

“Ispira sogni, visioni e coraggio, tu che sai meglio di chiunque altro che nulla è impossibile a Dio e allo stesso tempo che Dio non fa nulla da solo”, ha pregato.

Il Papa ha anche chiesto a Maria di aiutare la Chiesa a essere sempre “con e tra il popolo, lievito nella pasta di un'umanità che invoca giustizia e speranza”.

Papa Leone XIV impartisce la sua benedizione ai pellegrini e ai romani riuniti in Piazza San Pietro in Vaticano per la recita dell'Angelus l'8 dicembre 2025. (Foto CNS/Vatican Media).

All'Angelus

Prima di recarsi in Plaza de España, il Papa ha guidato la recita del Angelus a mezzogiorno con i visitatori in Piazza San Pietro.

Preservando Maria da ogni macchia di peccato fin dal momento del suo concepimento, ha detto, Dio le ha concesso “la grazia straordinaria di un cuore completamente puro, in vista di un miracolo ancora più grande: la venuta di Cristo Salvatore nel mondo come uomo”.

Quella grazia straordinaria ha dato frutti straordinari, ha detto, “perché nella sua libertà l'ha accolta, abbracciando il piano di Dio”.

“Il Signore agisce sempre così: ci dona grandi doni, ma ci lascia la libertà di accettarli o meno”, ha affermato il Papa. “Così, questa festa, che ci rallegra per la bellezza immacolata della Madre di Dio, ci invita anche a credere come lei ha creduto, dando il nostro generoso assenso alla missione alla quale il Signore ci chiama”.

Sagoma della statua mariana in Piazza di Spagna a Roma, dopo che un pompiere ha posto una corona di fiori sul braccio della statua l'8 dicembre 2025, festa dell'Immacolata Concezione. (Foto CNS/Lola Gomez).

Preghiera del Santo Padre Leone XIV

Dio ti salvi, Maria! Rallegrati, piena di grazia, in quella grazia che, come una luce delicata, illumina coloro sui quali risplende la presenza di Dio.

Il Mistero ti ha circondato fin dall'inizio, fin dal grembo di tua madre ha iniziato a compiere in te grandi cose, che presto hanno richiesto il tuo consenso, quel «sì» che ha ispirato molti altri «sì».

Immacolata, Madre di un popolo fedele, la tua trasparenza illumina Roma con luce eterna, il tuo cammino profuma le sue strade più dei fiori che oggi ti offriamo.

Molti pellegrini provenienti da tutto il mondo, o Immacolata, hanno percorso le strade di questa città nel corso della storia e in questo Anno Giubilare.

Un'umanità provata, a volte schiacciata, umile come la terra che Dio ha plasmato e in cui il suo Spirito di vita non smette mai di respirare.

Guarda, o Maria, tanti figli e figlie in cui la speranza non è morta: fa' germogliare in loro ciò che tuo Figlio ha seminato, Lui, il Verbo vivente che in ciascuno chiede di crescere, di prendere corpo, volto e voce.

Che la speranza gioiosa fiorisca a Roma e in ogni angolo della terra, speranza nel mondo nuovo che Dio prepara, e di cui tu, o Vergine, sei come il germoglio e l'aurora.

Dopo le porte sante, si aprano ora altre porte di case e oasi di pace dove la dignità possa rifiorire, si insegni l'educazione alla non violenza e si apprenda l'arte della riconciliazione.

Venga il regno di Dio, quella novità che tanto desideravi e alla quale ti sei aperta completamente, da bambina, da giovane e come madre della Chiesa nascente. Ispira nuove prospettive nella Chiesa che cammina a Roma e nelle Chiese particolari che, in ogni contesto, accolgono le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei nostri contemporanei, specialmente dei poveri e di tutti coloro che soffrono.

Che il battesimo continui a generare uomini e donne santi e immacolati, chiamati ad essere membri viventi del Corpo di Cristo, un Corpo che agisce, consola, riconcilia e trasforma la città terrena in cui si prepara la Città di Dio.

Intercedi per noi, che affrontiamo cambiamenti che sembrano coglierci impreparati e impotenti. Ispira sogni, visioni e coraggio, tu che sai meglio di chiunque altro che nulla è impossibile a Dio, e allo stesso tempo che Dio non fa nulla da solo.

Guidaci avanti, con la fretta che un tempo spinse i tuoi passi verso tua cugina Elisabetta e con l'inquietudine con cui ti sei trasformata in esiliata e pellegrina, per essere benedetta, sì, ma tra tutte le donne, la prima discepola di tuo Figlio, Madre di Dio con noi. Aiutaci ad essere sempre Chiesa con e tra il popolo, lievito nella pasta di un'umanità che grida giustizia e speranza.

Immacolata, donna di infinita bellezza, custodisci questa città, questa umanità. Mostrala a Gesù, portala a Gesù, presentala a Gesù. Madre, Regina della Pace, prega per noi.

L'autoreCNS / Omnes

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Vaticano

Il momento più importante della carriera di Michael Bublé: cantare per il Papa e per i poveri

Il cantante canadese è stato l'ospite d'onore del Concerto con i poveri, tenutosi sabato scorso in Vaticano.

Luísa Laval-8 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

L'Aula Paolo VI in Vaticano ha già un appuntamento fisso nel calendario natalizio: il Concerto con i poveri, che nella sua sesta edizione ha portato il cantante che è presente in tutti i nostri Successi natalizi: Michael Bublé. Nelle prime file c'erano 3.000 poveri di Roma, mentre altre 5.000 persone hanno riempito l'auditorium.

Il cantante canadese si è detto emozionato per l'opportunità di cantare a Roma alla presenza di Papa Leone XIV: “È il momento più importante della mia carriera. Dio mi sta benedicendo per poter condividere insieme questa serata fraterna”.

Bublé si è mostrato a proprio agio sul palco e ha cercato di interagire in modo particolare con il pubblico più svantaggiato. Si è rivolto più volte alla parte sinistra del palco, dove si trovava un gruppo di persone in sedia a rotelle. Ha invitato il pubblico a cantare, senza paura di sbagliare il testo o il tono.

Tra le canzoni scelte per l'occasione, non poteva mancare il classico natalizio Comincia a sembrare proprio Natale (impossibile leggerlo senza canticchiarlo), oltre al suo successo Sentirsi bene.

Ma il momento clou della serata è stata l'interpretazione del Ave Maria di Schubert, la cui anteprima durante la conferenza stampa del giorno precedente era già diventata virale sui social network. Bublé ha ringraziato, dicendo che è una delle canzoni più belle di tutti i tempi.

La presenza del Papa

Tra gli ospiti della serata, il Papa ha assistito all'intero concerto e ha ricordato che il tradizionale concerto in Vaticano è nato nel cuore del suo predecessore, Papa Francesco. “Stasera, mentre le melodie toccavano le nostre anime, abbiamo sentito il valore inestimabile della musica: non è un lusso per pochi, ma un dono divino accessibile a tutti, ricchi e poveri”.

Con questo gesto, León dimostra di essere d'accordo con il motto del suo maestro spirituale, Sant'Agostino: chi canta prega due volte. Ha ricordato che la musica e la bellezza sono una forma d'amore, una via pulchritudinis (cammino di bellezza) che conduce a Dio.

“La musica è come un ponte che ci porta a Dio. È in grado di trasmettere sentimenti, emozioni, persino i moti più profondi dell'anima, elevandoli e trasformandoli in una scala ideale che collega la terra e il cielo. Sì, la musica può elevare la nostra anima! Non perché ci distragga dalle nostre miserie, perché ci stordisca o ci faccia dimenticare i problemi o le situazioni difficili della vita, ma perché ci ricorda che non siamo solo questo: siamo molto più dei nostri problemi e delle nostre pene, siamo figli amati da Dio!”.”

Sulla strada della bellezza

Non possiamo dimenticare il protagonista fisso del Concerto con i poveri, il maestro e compositore Marco Frisina, direttore del Coro della Diocesi di Roma. Come sempre, ha colto l'occasione per ricordare il significato cristiano del Natale e la speranza che la musica porta nell'oscurità del mondo.

Nelle precedenti edizioni dell'evento natalizio, Frisina ha condiviso il palco con grandi nomi della musica come Hans Zimmer ed Ennio Morricone. Ogni anno è un'occasione per questi artisti e le centinaia di persone che li accompagnano di incontrare privatamente il Santo Padre e di compiere un gesto di generosità: condividere il proprio talento con chi forse non avrebbe mai avuto l'opportunità di vederli.

Il sacerdote italiano si è già consacrato come portavoce della musica sacra e crede nel suo forte potenziale di evangelizzazione. Iniziative come questo concerto e lo spettacolo di pietà da lui diretto durante la veglia del Giubileo dei Giovani ad agosto dimostrano che la via pulchritudinis è davvero un ottimo modo per parlare di Dio al giorno d'oggi.

Alla fine del concerto, tutti i poveri hanno ricevuto una cena italiana distribuita dal Vaticano: lasagne, polpette e broccoli.

Evangelizzazione

«Potuit, decuit, ergo fecit». L'Immacolata, devozione, dogma e mistero

Reynaldo Jesús-8 dicembre 2025-Tempo di lettura: 7 minuti

La solennità dell'Immacolata Concezione occupa un posto privilegiato nella fede cattolica, non solo per il contenuto dottrinale che trasmette, ma anche per la ricchezza spirituale e pastorale che ha generato nel corso dei secoli. In essa coincidono la devozione del popolo cristiano, la solennità definitoria del magistero e la riflessione teologica. 

Maria, preservata per grazia dalla macchia del peccato nel primo istante della sua esistenza, appare come punto di unione tra fede celebrata, fede creduta e fede vissuta. In questo senso, la Chiesa scopre nell'affermazione dell'angelo Gabriele in Lc 1,28 - “Læaetare, gratia plena” (κεχαριτωμένη) - il fondamento biblico privilegiato della sua santità originale. I Padri greci, come san Efrem e san Giovanni Damasceno, videro in questa pienezza di grazia un'esclusione radicale del peccato: “Tu, e solo Tu, sei totalmente bella, senza alcuna macchia” (Efrem, Carmina Nisibena 27,8). 

Ora, la classica premessa immacolatista —Potuit, decuit, ergo fecit—, condensa con semplicità la logica del mistero mariano che si riassume nel fatto che «Dio potuto preservare Maria dal peccato originale; conveniva alla dignità della Madre del Verbo incarnato che così fosse; pertanto, nella sua amorevole provvidenza, lo ha fatto». Vale la pena ricordare che questa formula è presente nella tradizione francescana ed è stata progressivamente assunta dalla Chiesa, e con essa non solo esprime un argomento teologico, ma un dinamismo spirituale e pastorale che attraversa la vita ecclesiale. 

Duns Scoto formulò magistralmente questa logica, che raccolse la bolla Ineffabilis Deus; tuttavia, già sant'Ireneo anticipò lo spirito di questa premessa contrapponendo Eva e Maria: “il nodo della disobbedienza di Eva fu sciolto dall'obbedienza di Maria” (Adv. Haer. III,22,4). Se era opportuno che la nuova Eva introducesse la vita dove l'antica aveva introdotto la morte (cfr. Rm 5,12-21), era anche opportuno che fosse interamente rinnovata fin dall'origine. 

Il dogma dell'Immacolata Concezione non è un privilegio isolato, ma costituisce la manifestazione luminosa della gratuità di Dio e della piena disponibilità della libertà umana alla sua opera. Questo dogma, definito da Papa Pio IX nel Ineffabilis Deus (1854), è stato celebrato per secoli sia nella liturgia che nella devozione del popolo cristiano, anche molto prima del suo riconoscimento magisteriale, il cuore del credente già intuiva e venerava la purezza originale di Maria, comprendendo che Dio l'aveva preparata in modo singolare per essere la Madre di suo Figlio. 

Pio IX raccoglie questo “istinto di fede” del popolo fedele affermando che la Chiesa ha sempre considerato l'Immacolata Concezione come una dottrina ricevuta dai Padri e, inoltre, ha cercato di perfezionare l'insegnamento affinché ricevesse chiarezza, luce e precisione (cfr.  Ineffabilis Deus, proemio). Benedetto XVI sottolinea questa continuità riconoscendo che l'espressione di Lc 1,28 raccoglie il titolo più bello dato da Dio a Maria proponendola inoltre come stella della speranza e aurora che annuncia il giorno della salvezza, senza trascurare la lettura cristologica ed ecclesiale di Maria, in cui spicca la sua vocazione singolare, la sua elezione anticipata e il suo ruolo nella Chiesa, valorizzando il dogma come autentica integrazione del piano divino (Angelus, 8 dicembre 2005-2007). 

Non si possono mettere a tacere le voci di coloro che, attraverso una molteplicità di opere di carattere devozionale, esprimono con bellezza poetica e teologica la convinzione ecclesiale che Maria è “tutta pura”, tota pulchra. La devozione del popolo, il magistero ecclesiale e la riflessione teologica si orientano verso una visione integrata del mistero mariano che illumina sia la storia della salvezza che la vocazione dell'essere umano. La liturgia applica a Maria i testi del Cantico dei Cantici: “Tutta tu sei bella, amica mia, e non c'è alcuna macchia in te” (Ct 4,7), che sant'Ambrogio interpretava in chiave mariana (Esposizione in Luca. II,7). 

Il «potuit»: possibilità teologica in Ineffabilis Deus

Dobbiamo ricordare che la convinzione popolare della cosiddetta “convenienza” del mistero trovò la sua affermazione dottrinale in Ineffabilis Deus (8 dicembre 1854). In questa bolla, Papa Pio IX articola il dogma dell'Immacolata a partire dalla piena onnipotenza divina: «Se Dio poteva preservare Maria dal peccato originale in previsione dei meriti di Cristo, allora tale atto appartiene legittimamente alla sua sovrana libertà», quindi, non si tratta solo di una semplice affermazione di potere operativo, ma è l' espressione di una possibilità inscritta nel disegno salvifico. 

Sebbene il testo pontificio citi esplicitamente sant'Efrem, sant'Agostino e sant'Andrea di Creta come antichi testimoni di questa santità originaria, è curioso notare che nei testi di sant'Agostino, prudente nella sua formulazione, quando affronta la questione del peccato afferma: “Trattandosi della Vergine Maria, non voglio che si parli di peccato”, riassumendo questo concetto nell'espressione latina «eccepta itaque sancta virgine», cioè, eccetto quindi la Santa Vergine Maria (De natura et gratia, 36). 

La bolla, offrendo i fondamenti biblici e patristici, mostra che questo potuit non nasce dal volontarismo, ma dalla coerenza interna del piano divino. La nuova Eva doveva essere pienamente associata alla missione del nuovo Adamo; la pienezza di grazia proclamata dall'angelo doveva avere un inizio proporzionale al suo destino. Il potuit diventa così il fondamento del dogma: se Dio è Padre onnipotente e Salvatore, certamente poteva compiere in Maria questa opera singolare. 

L'Incarnazione richiedeva una libera cooperazione umana; e se Dio prepara le vie per la venuta di suo Figlio, nulla impedisce che tale preparazione raggiunga la radice stessa dell'essere di Maria. Ciò che la Chiesa proclama è che Dio ha agito in anticipo; che la sua azione redentrice non è limitata dal tempo; e che la grazia di Cristo può irrompere anche all'origine di un'esistenza umana per preservarla dal male. 

Il «decuit»: convenienza dell'Immacolata nell'intuizione devozionale del popolo. Se la Chiesa ha riconosciuto in Maria una purezza originaria è, in gran parte, perché il popolo cristiano la percepiva così molto prima della definizione dogmatica. 

Devo dire che la nona Candore della luce eterna (scritta in Guatemala intorno al 1720 dal francescano Fr. Rodrigo de Jesús Sacramentado) può essere considerata un'autentica e notevole testimonianza di questa sensibilità; è un'opera che, utilizzando un linguaggio poetico e simbolico, esprime la profonda “convenienza” —il decuit— che la Madre del Salvador fosse fin dalle sue origini uno spazio senza ombre per la luce di Dio. 

Lungi dall'essere un sentimento popolare, questa convinzione nasce dal contatto continuo con il Mistero. Identificare Maria come candore della luce eterna, presenta un'intuizione teologica importante: se il Figlio è la Luce, era opportuno che sua Madre fosse trasparenza pura, aurora senza tramonto, creatura aperta senza fessure all'azione della grazia

Il decuit La devozione è evidente nelle immagini bibliche che la novena dispiega: Maria come specchio senza macchiacome giardino recintato o come stella del mattino. In queste figure si percepisce che il popolo cristiano ha “riconosciuto” in Maria ciò che era conforme alla sua missione materna. Ciò che secoli dopo sarebbe stato formulato dogmaticamente era già vivo nella preghiera e nella contemplazione dei fedeli. Come tante volte nella storia, la liturgia e la pietà precedono la definizione teologica, esprimendo la profonda saggezza del sensus fidelium

Il «fecit»: realizzazione storica e sua ricezione contemporanea in Benedetto XVI Se la teologia ha affermato la possibilità (potuit) e il popolo credente intuì l'opportunità (decuit), il ergo fecit sottolinea la certezza che Dio lo ha fatto. In Maria Santissima, la preservazione dal peccato originale non è solo un pensiero teologico, ma è in realtà un evento storico che rivela qualcosa di essenziale sull'azione di Dio nel mondo: il suo desiderio di salvare radicalmente, di ricostruire l'umanità dalle fondamenta

Vorrei riferirmi al pensiero di Papa Benedetto XVI, che ha saputo illuminarci con un'interpretazione opportuna. Il Papa tedesco sembra leggere il ergo fecit come una pedagogia della libertà. Dio non ha annullato la natura di Maria, ma l'ha portata alla sua pienezza. La grazia preservante non l'ha allontanata dagli altri, ma l'ha resa icona di ciò che l'umanità è chiamata ad essere quando accoglie senza riserve l'amore divino. In un mondo che sperimenta la frattura interiore, l'Immacolata appare come segno della vittoria definitiva della grazia: Dio lo ha fatto per mostrare ciò che farà pienamente nell'umanità rigenerata. Maria è “trasparenza dell'amore di Dio, dimostrazione di ciò che Dio voleva fin dall'inizio per l'uomo” (Omelia, 8 dicembre 2005). 

Per Papa Benedetto XVI, l'Immacolata è il “SÌ” puro e originario dell'umanità a Dio. In lei si compie il fecit divino in modo profondamente cristologico: ciò che Dio compie in Maria anticipa, illumina e conferma l'opera di Gesù Cristo in tutti gli uomini. Maria non è un'eccezione isolata, sarebbe un grave errore pensarlo, ma il frutto più prezioso della redenzione. Ricordiamo che la definizione del dogma punta da Maria a Gesù Cristo: “La beata Vergine Maria è stata preservata immune da ogni macchia di peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento, per singolare grazia e privilegio di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo”.”. Maria è l'icona della risposta totalmente libera dell'uomo a Dio, perché la libertà umana, preservata ed elevata, diventa il luogo in cui si dispiega la Grazia. 

Unità del mistero nel dinamismo del potuit–decuit–fecit 

L'Immacolata Concezione, contemplata dalla classica premessa immacolatista, come ho accennato all'inizio, «Potuit, decuit, ergo fecit», rivela la profonda coerenza dell' agire divino: Dio può fare ciò che vuole, vuole ciò che è conveniente al suo amore e realizza ciò che manifesta più pienamente la sua gloria e la sua misericordia..

Il popolo cristiano intuì intuitivamente questa opportunità in opere devozionali come Candore della luce eterna, novena composta nel contesto della spiritualità barocca e ampiamente diffusa nella tradizione ispanica, testimonianza privilegiata di questa devozione; il magistero della Chiesa confermò la possibilità e la realtà del mistero in Ineffabilis Deus; e il pensiero di Benedetto XVI lo presenta da un'interpretazione cristologica come una verità profondamente attuale per l'uomo, chiamato anche lui a lasciarsi trasformare dalla grazia. 

Maria, la Signora che è candore della luce eterna, è presenza di ciò che Dio può, di ciò che conviene al suo amore e di ciò che ha effettivamente realizzato nella storia.  Contemplarla significa imparare a confidare nell'azione divina che, ancora oggi, continua a ricreare il mondo e a guidarlo verso la sua pienezza nonostante le ferite e l'evidente perdita del senso del peccato. Maria continua ad essere segno di speranza, ricordo della bellezza del cuore puro, modello di autenticità interiore e garanzia del trionfo definitivo della grazia. Non c'è dubbio che in Maria vediamo realizzata la promessa di Dio nel senso che la grazia è più forte del peccato. Così, il «potuit–decuit–fecit» non è un ragionamento, ma una spiritualità: descrive come agisce la grazia, come trasforma e come culmina la sua opera in coloro che si aprono pienamente ad essa.

L'autoreReynaldo Jesús

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Ecologia integrale

Intelligenza artificiale: opportunità, limiti e accompagnamento umano

L'intelligenza artificiale (IA) è un potente strumento tecnologico che, pur suscitando fascino e timori, richiede un'educazione critica, un uso equilibrato e una responsabilità etica.

JC Montenegro-8 dicembre 2025-Tempo di lettura: 4 minuti

Viviamo in un'epoca in cui la tecnologia non è più solo “intorno” alla vita umana, ma dentro di essa. L'intelligenza artificiale, o IA, ha smesso di essere una promessa futuristica per diventare un compagno silenzioso che traduce testi, organizza compiti, suggerisce video e persino corregge i nostri errori. Se siamo adulti, questo ci sorprende. Se siamo giovani, questo è già normale. Questa differenza generazionale è fondamentale per comprendere come ci relazioniamo con l'IA e perché è urgente conoscerne i vantaggi e i rischi.

L'intelligenza artificiale non è magia. Si basa su dati, algoritmi e modelli. Impara dalle nostre ricerche, dalle nostre preferenze, dal comportamento collettivo di milioni di utenti. E lo fa a grande velocità. Ecco perché affascina. Ed ecco perché incute timore.

Risultati di un sondaggio

In uno studio condotto su 1.013 giovani della regione salesiana interamericana, il 61,51% ha affermato di avere «una discreta familiarità» con l'IA Salesian Youth and Ai. Ciò rivela che le nuove generazioni non solo sentono parlare dell'argomento, ma convivono con esso. Lo incorporano nella loro vita quotidiana, nei loro compiti scolastici, nel loro tempo libero digitale. Eppure, quando viene chiesto loro quali siano le loro paure, la risposta è sorprendentemente matura. Il 47,91% esprime preoccupazione per l'uso irresponsabile dell'IA, il 46,41% teme l'impatto sulle relazioni umane e il 45,11% mette in discussione il rischio di sostituire il lavoro umano Salesian Youth and Ai. Non abbiamo di fronte una gioventù ingenua. È inquieta, consapevole e, soprattutto, chiede di essere accompagnata.

Questo dato apre un dibattito che non è solo tecnologico, ma profondamente umano. Per secoli, il progresso è stato inteso come la capacità di automatizzare. Prima sono state le macchine a sostituire le braccia. Poi i computer ad accelerare i calcoli. Oggi l'IA impara, suggerisce, crea e decide. Ma la domanda non è se l'IA possa farlo, bensì se debba farlo. E ancora di più: cosa facciamo noi con questo potere.

I giovani che hanno partecipato allo studio non vogliono che l'IA sostituisca la loro intelligenza. Immaginano un tutor che spieghi passo dopo passo, che insegni, che ispiri. Non vogliono risposte che evitino lo sforzo, ma strumenti che consentano di comprendere meglio. Questa aspirazione rivela qualcosa di essenziale: l'IA non è un fine in sé. È un mezzo. La sua moralità dipenderà da come verrà utilizzata.

Contrasto generazionale

Gli adulti, invece, tendono a vedere l'IA come una novità lontana. O come una minaccia culturale. Facciamo fatica a riconoscere che il digitale non è un'estensione della vita giovanile: è parte dell'ecosistema in cui sono cresciuti. In un sondaggio condotto su 1.375 collaboratori laici salesiani, il 78,81% vede nell'IA nuovi strumenti educativi, mentre il 55,61% teme la dipendenza tecnologica Salesian Lay and Ai v1. La tensione è evidente. Entusiasmo e prudenza coesistono, perché l'IA promette efficienza, ma suscita anche il sospetto che possa privarci del nostro giudizio.

Questo contrasto tra generazioni non deve portarci a posizioni estreme. Né idolatrare l'IA come soluzione universale, né demonizzarla come nemica dell'umanità. Entrambe le strade nascondono lo stesso pericolo: smettere di pensare con la nostra testa. L'IA è potente quando amplifica la nostra capacità di apprendere, discernere e creare. Ma ci impoverisce se ci abitua a rispondere senza chiedere, a consumare senza verificare, a delegare senza riflettere.

Negli ultimi anni ho lavorato con giovani, educatori e operatori sociali che stanno vivendo questa transizione. In molti di loro ho notato un fenomeno affascinante. Quando devono affrontare compiti complessi, come la risoluzione di problemi matematici, l'IA può mostrare loro la procedura. Quando devono comprendere testi complessi, può sintetizzarli. Quando hanno bisogno di esempi, può generarli. Questo aiuto è prezioso, purché non annulli il processo di apprendimento. Quando il giovane smette di leggere perché “l'IA gli ha già detto ciò che è importante”, perde qualcosa di più di un voto. Perde autonomia intellettuale.

Come funziona l'IA

Noi adulti corriamo lo stesso rischio. Quante volte consultiamo strumenti digitali per decidere cosa mangiare, dove viaggiare o cosa pensare di un dibattito pubblico? L'IA funziona come uno specchio delle nostre preferenze. Ci dà ciò che crediamo di volere, ma non necessariamente ciò di cui abbiamo bisogno. Le piattaforme che raccomandano contenuti, ad esempio, imparano i nostri gusti e li intensificano. Il risultato è comodo, ma pericoloso: viviamo in bolle informative, sempre più personalizzate e meno diversificate.

Per comprendere l'IA con maturità è opportuno ricordare una cosa semplice. Essa non ha valori propri. Non sa cosa sia giusto o sbagliato. Sa solo correlare ciò che è probabile. Funzionerà in base allo scopo che le assegniamo e alla cura etica con cui la utilizziamo. Un martello può costruire una casa o rompere un vetro. Lo strumento non definisce il significato. Lo definisce l'intenzione umana.

Alcuni suggerimenti

Allora, come procedere? Ci sono tre fattori chiave per un uso umano dell'IA.

In primo luogo, un'educazione critica. L'IA non deve essere presentata come un sostituto dello sforzo, ma come un'alleata del pensiero. I giovani devono sapere come funziona, non solo come si usa. Quali dati raccoglie, quali pregiudizi comporta, come verificarne le informazioni. Lo stesso vale per gli adulti. Comprendere i suoi limiti evita delusioni e abusi.

Secondo, equilibrio. Se ci affidiamo all'IA per tutto, perderemo la capacità di scegliere. Usarla non è sbagliato. Dipenderne, sì. La tecnologia è un supporto, mai un sostituto dell'incontro umano, del dialogo, della pazienza che si impara risolvendo un problema senza scorciatoie.

Terzo, responsabilità etica. L'IA crea immagini, testi, voci. Può imitare stili o fabbricare dati. Ciò richiede prudenza. Verificare le fonti. Citare correttamente. Proteggere la privacy. Rispettare il lavoro degli altri. Essere trasparenti sul suo utilizzo quando il contesto lo richiede.

In fondo, parlare di IA significa parlare di umanità. Le generazioni più giovani ci stanno inviando un messaggio. Non ci chiedono di vietare loro l'uso della tecnologia. Ci chiedono di accompagnarli nell'uso consapevole della stessa. Non vogliono un mondo senza IA. Vogliono un mondo in cui l'IA non sostituisca ciò che ci rende umani.

La tecnologia avanza. Noi dobbiamo avanzare con essa. Ma se dimentichiamo che l'intelligenza non è solo elaborare dati, ma anche amare, dialogare, immaginare e cercare un senso, allora nessuna macchina sarà responsabile. Saremo noi ad aver rinunciato a pensare e ad agire liberamente.

L'IA può rappresentare un'immensa opportunità per imparare, creare e crescere. Ma anche un rischio silenzioso che limita l'autonomia e indebolisce la convivenza. La decisione non spetta agli algoritmi. Spetta a noi. Conoscere i suoi vantaggi e svantaggi, ascoltare le voci di chi già convive con essa e scegliere consapevolmente saranno le chiavi affinché la tecnologia sia al servizio della vita, e non il contrario.

L'autoreJC Montenegro

Direttore esecutivo del Centro giovanile della Famiglia Salesiana a Los Angeles.

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Evangelizzazione

Quale miracolo mariano è avvenuto il giorno dell'Immacolata?

L'8 dicembre celebriamo l'Immacolata Concezione, una festa che unisce il dogma proclamato dalla Chiesa al miracolo che ha reso la Vergine patrona dei Terzi spagnoli.

Álvaro Gil Ruiz-8 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

L‘8 dicembre celebriamo il dogma dell'Immacolata Concezione. Infatti, proprio in questo giorno del 1854, Papa Pio IX (Pio IX) proclamò il dogma dell'Immacolata Concezione della Vergine con la bolla ’Ineffabilis Deus". L'Immacolata Concezione è uno dei quattro dogmi mariani: la maternità divina, la verginità perpetua e l'assunzione al cielo in corpo e anima.

Immacolata deriva da immacolato, senza macchia di peccato. In Spagna esiste il privilegio delle vesti blu in questo giorno. 

Ma pochissimi sanno che il motivo per cui è l'8 dicembre e non il 27 marzo o il 3 aprile è il miracolo di Empel.

Questo miracolo avvenne nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1585, all'epoca di Filippo II. Durante la Guerra degli Ottant'anni nei Paesi Bassi (conosciuta in Spagna come guerra delle Fiandre e nei Paesi Bassi come guerra d'indipendenza dei Paesi Bassi). Nello specifico, il Tercio Viejo de Zamora, composto da 5000 uomini e comandato dal maestro di campo Francisco Arias de Bobadilla, si trovava sull'isola di Bommel, situata tra i fiumi Mosa e Waal. 

Erano in inferiorità numerica e con scarse provviste rispetto alle truppe dell'ammiraglio Holak. Inoltre, furono circondati sul monte Empel. Lì, mentre scavavano trincee per prepararsi alla battaglia, trovarono una tavola fiamminga dell'Immacolata. Posero l'immagine su un altare improvvisato e il Maestro Bobadilla, che aveva grande devozione per la Vergine, chiese ai suoi soldati di pregare la Vergine Immacolata per la vittoria.

Durante la notte avvenne il seguente miracolo. Soffiò un vento gelido che congelò le acque. In questo modo i tercios spagnoli se ne accorsero, riuscirono ad attraversare i fiumi a piedi e cogliere di sorpresa i loro avversari. Ottennero una vittoria così schiacciante che l'ammiraglio Holak arrivò a dire: «Sembra che Dio sia spagnolo, per aver compiuto, secondo me, un miracolo così grande». Quello stesso giorno l'Immacolata Concezione fu proclamata patrona dei tercios spagnoli nelle Fiandre e in Italia.

Da allora è considerata la patrona della Spagna e dell'esercito di terra. Fu celebrata per la prima volta in Spagna nel 1644, ma fu dichiarata festa religiosa e dogma, come abbiamo detto, l'8 dicembre 1854 da Papa Pio IX.

Per celebrare la festa vengono celebrate 9 messe a partire dal giorno di Sant'Andrea fino al giorno della festa. 

Vaticano

«La pace è possibile»: 7 lezioni del Papa dopo il viaggio in Turchia e Libano

Durante l'Angelus di questa seconda domenica di Avvento, Papa Leone XIV ha affermato che quanto accaduto in questi giorni durante il suo viaggio in Turchia e Libano “ci insegna che la pace è possibile e che i cristiani possono contribuire a costruirla”. Lo ha sintetizzato in 7 lezioni.  

Redazione Omnes-7 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Il viaggio apostolico in Turchia e Libano ha permesso a Papa Leone XIV di assicurare domenica scorsa, durante l'Angelus in Piazza San Pietro, davanti a migliaia di persone, che questi giorni “ci insegnano che la pace è possibile. E che i cristiani, nel dialogo con uomini e donne di altre religioni e culture, possono contribuire a costruirla. Non dimentichiamo che la pace è possibile”, ha ribadito.

Dopo una breve riflessione sul Vangelo di questa seconda domenica di Avvento, incentrata sulla figura del precursore, San Giovanni Battista, e sul suo messaggio di conversione, il Papa ha recitato la preghiera mariana dell'Angelus. Ha poi commentato che pochi giorni fa è tornato dal suo primo viaggio apostolico in Turchia e Libano, di cui Omnes ha dato notizia ogni giorno.

7 conclusioni del viaggio

León XIV ha redatto questo breve riassunto del viaggio in sette punti.

1.- “Insieme al mio caro fratello Bartolomeo, Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, e i rappresentanti di altre confessioni cristiane, ci siamo riuniti per pregare insieme a Íznik, l'antica Nicea, dove 1700 anni fa si tenne il primo Concilio ecumenico”.

Oggi ricorre proprio il 60° anniversario della Dichiarazione congiunta tra Paolo VI e il Patriarca Atenagora, che pose fine alle reciproche scomuniche, ha ricordato.

“Ringraziamo Dio e rinnoviamo il nostro impegno nel cammino verso la piena unità visibile di tutti i cristiani". 

2. “In Turchia ho avuto il la gioia di trovare la comunità cattolica. Attraverso il dialogo paziente e servizio a chi soffre, questa comunità testimonia il Vangelo dell'amore e della logica di Dio che si manifesta nella piccolezza”.”

3.- “Il Il Libano continua a essere un mosaico di convivenza e mi ha confortato sentire tante testimonianze in questo senso”. 

4.- Ho trovato persone che annunciano il Vangelo accogliendo gli sfollati, visitando i prigionieri, condividendo il pane con i bisognosi. 

5.- “Mi ha confortato vedere tanta gente per strada che mi saluta e mi ha commosso l'incontro con i familiari di le vittime dell'esplosione nel porto di Beirut”. 

6- “I libanesi aspettavano una parola e una presenza di conforto, ma sono stati loro a consolarmi con la sua fede e il suo entusiasmoRingrazio tutti coloro che mi hanno accompagnato con le loro preghiere! 

7.“Quello che è successo negli ultimi giorni in Turchia e in Libano ci insegna che la pace è possibile e che i cristiani, nel dialogo con uomini e donne di altre religioni e culture, possono contribuire a costruirla".

Vicino ai popoli del Sud e Sud-Est asiatico

“Sono vicino alle popolazioni del Sud e Sud-Est asiatico, duramente colpite dalle recenti calamità naturali“, ha aggiunto il Papa.

Il Santo Padre prega “per le vittime, per le famiglie che piangono i loro cari e per coloro che prestano soccorso. Esorto la comunità internazionale e tutte le persone di buona volontà a sostenere con gesti di solidarietà i fratelli e le sorelle di quelle regioni”.

Il Papa ha salutato con affetto tutti i romani e i pellegrini. “Saluto tutti coloro che sono venuti da altre parti del mondo, in particolare i fedeli peruviani di Pisco, Cusco e Lima. Ai polacchi, ricordando anche la Giornata di preghiera e sostegno materiale alla Chiesa dell'Est. Anche al gruppo di studenti portoghesi. E ai gruppi parrocchiali italiani.

Prima dell'Angelus

Commentando il Vangelo della domenica, Papa Leone ha affermato che “certamente il tono del Battista è severo, ma il popolo lo ascolta perché nelle sue parole risuona l'invito di Dio a non giocare con la vita, a cogliere il momento presente per prepararsi all'incontro con Colui che non giudica dalle apparenze, ma dalle opere e dalle intenzioni del cuore”.

Inoltre, ha sottolineato che il mondo ha bisogno di speranza e che “nulla è impossibile a Dio. Prepariamoci al suo Regno, accogliamolo. Il più piccolo, Gesù di Nazareth, ci guiderà. Lui, che si è affidato alle nostre mani, dalla notte della sua nascita fino all'ora buia della sua morte sulla croce, risplende nella nostra storia come il sole nascente”.

“È iniziato un nuovo giorno: svegliamoci e camminiamo nella sua luce! Impariamo a farlo come Maria, nostra Madre, donna che attende con fiducia e speranza”, ha concluso.

L'autoreRedazione Omnes

Evangelizzazione

Sant'Ambrogio, vescovo di Milano, figura chiave nella conversione di Sant'Agostino

Il 7 dicembre la Chiesa celebra sant'Ambrogio, anche se oggi è la seconda domenica di Avvento. Il vescovo sant'Ambrogio di Milano (IV secolo) è uno dei quattro grandi dottori latini della Chiesa. Gli altri tre sono sant'Agostino, san Gregorio Magno e san Girolamo.

Francisco Otamendi-7 dicembre 2025-Tempo di lettura: 2 minuti

Sant'Ambrogio, vescovo di Milano (Italia), è una delle figure più influenti del cristianesimo antico e Dottore della Chiesa. La sua vita e la sua opera sono state ampiamente documentate da fonti ufficiali della Santa Sede e dalla tradizione agostiniana. In particolare nelle ‘Confessioni’ di sant'Agostino, dove questi racconta il ruolo decisivo che sant'Ambrogio ebbe nella sua conversione.

Figlio di una famiglia cristiana romana e formatosi in retorica e diritto, Ambrogio arrivò a Milano come governatore della provincia della Liguria e dell'Emilia. La sua elezione a vescovo nel 374 fu rapida e quasi improvvisa. Secondo le fonti ecclesiastiche, era ancora catecumeno quando la comunità lo acclamò per occupare la sede vescovile. Dopo aver ricevuto il battesimo e gli ordini sacri in pochi giorni, Ambrogio fu vescovo per più di due decenni.

Rimase saldo di fronte agli imperatori Teodosio e Valentiniano II, insistendo sempre sulla supremazia della coscienza cristiana e sulla necessità che i governanti si sottomettessero alla legge morale.

Impatto su Sant'Agostino 

Le ‘Confessioni’ narrano l'impatto prodotto dall'eloquenza, dall'intelligenza e dall'interpretazione spirituale delle Scritture che sant'Ambrogio offriva nelle sue omelie. Sant'Agostino All'inizio era un intellettuale scettico, ma trovò in Sant'Ambrogio un testimonianza vivente della fede cristiana. 

Fu Sant'Ambrogio a battezzarlo nella Veglia Pasquale dell'anno 387. Gli agostiniani dicono che “se non avessimo avuto Sant'Ambrogio, non avremmo l'Ordine degli Agostiniani come lo conosciamo oggi‘.

“Ubi Petrus, ibi Ecclesia”

Sant'Ambrogio riconobbe sempre il primato del vescovo di Roma affermando: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (‘Dove è Pietro, lì è la Chiesa’). La teologia sacramentale, la liturgia, la musica sacra – compreso il celebre ‘Te Deum’, tradizionalmente a lui associato – fecero di Sant'Ambrogio un pilastro della Chiesa latina. 

L'autoreFrancisco Otamendi

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Libri

Genealogia dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani è nata dopo la guerra per fondare universalmente la dignità umana, che Hans Joas suggerisce essere una "sacralizzazione della persona" che la rende inviolabile.

José Carlos Martín de la Hoz-7 dicembre 2025-Tempo di lettura: 4 minuti

Alla fine della seconda guerra mondiale e di fronte alla portata dell'olocausto ebraico, il clamore della dichiarazione universale dei diritti umani si impose come un dovere ineludibile e indifferibile dell'umanità nei confronti della storia e del futuro del genere umano.

Certamente, la dichiarazione dei diritti umani è stata resa possibile grazie a un accordo totale e universale, e da allora quella carta magna è servita a unire gli uomini di ogni razza e condizione, come se fossero applicazioni del diritto naturale, di un'etica globale e di un presupposto di partenza per impedire o almeno condannare gli attacchi alla dignità della persona umana.

Il problema è che, nella mente dei cristiani, degli ebrei e dei musulmani che credono in un Dio unico e trascendente, era molto chiaro che i diritti umani si basavano sulla dignità della persona umana come figlio di Dio o, almeno, come creatura di Dio. 

La difficoltà risiedeva nei non credenti, che cominciavano ad aumentare di numero e che non riuscivano a trovare un principio solido su cui basare i diritti umani se non nei “propri” diritti umani.

Il fondamento dei diritti umani

L'idea sviluppata da Hans Joas nel saggio che stiamo commentando è proprio questa: fondare i diritti umani sulla dignità della persona umana equivarrebbe a sacralizzare la persona umana, ovvero conferirle una dignità e una reputazione tali da allontanare realmente la tentazione di attentare, umiliare o degradare tale dignità.

In un certo senso, il patto del Leviatano di Hobbes impallidirebbe di fronte alla sacralizzazione della persona che assume impegni di verità e libertà nei confronti degli altri esseri umani, riconoscendo che tale relazione nobilita e diventa fonte di feconda creatività. In definitiva, sarebbe come interpretare il Concilio Vaticano II, nella Costituzione dogmatica “Gaudium et spes”, quando afferma che l'uomo è “l'unica creatura terrestre che Dio ha amato per se stessa, e che non può trovare la propria pienezza se non nella sincera donazione di sé agli altri” (n. 24).

Questo è molto importante, poiché secondo Hans Joas, dopo alcuni anni, si correva il rischio di trasformare la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, che ha costituito il fondamento dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, in un “processo riuscito di generalizzazione dei valori” (p. 21). 

Libertà religiosa

Alcuni, con il passare degli anni, potrebbero addirittura citarla come esempio dell'evoluzione storica delle buone intenzioni del XVIII secolo nell'attualizzazione delle idee della rivoluzione americana o della dichiarazione della rivoluzione francese (p. 24).

Soprattutto, teniamo presente che la rivoluzione francese era al di sopra del diritto canonico e civile e manipolò il popolo e la Chiesa a suo piacimento per diventare persecutori di Dio in tutto il territorio francese, disseminando il paese di cadaveri ghigliottinati fino a diventare essi stessi tali (p. 31).

La prima conseguenza negli Stati Uniti fu il principio della libertà religiosa, secondo cui nessuno doveva essere molestato per le proprie convinzioni o costretto ad abbracciare una religione o un credo (p. 53). Anni dopo, lo stesso Concilio Vaticano II riprese questo principio di libertà e lo diffuse in tutto il mondo: senza libertà non si può amare Dio.

Era logico, poiché i diritti umani valgono per tutti gli uomini di tutte le razze, culture e nazioni e tutti siamo uguali davanti alla legge e abbiamo pari opportunità.

La tortura

Hanno anche immediatamente vietato la tortura nelle costituzioni di tutte le nazioni europee, in modo che la tortura non fosse più parte integrante del diritto penale o delle indagini su un furto (p. 63).

La scomparsa della tortura non è solo il risultato dell'umanizzazione delle punizioni e delle pene, ma è qualcosa di molto più profondo: è il ritorno al principio della presunzione di innocenza e al fatto che l'uomo deve essere sempre trattato come immagine e somiglianza di Dio e che è preferibile che menta piuttosto che essere torturato.

La tortura è indubbiamente aberrante in uno Stato di diritto e lontana da ogni logica umana (p. 69). Pertanto, i diritti umani introducono nelle relazioni penali una nuova sensibilità (p. 71).

Pertanto, dal 1830 sarà praticamente abolita in tutta Europa, in Spagna dalle corti di Cadice nel 1812, anche se è vero che la tortura è stata occasionalmente applicata in alcuni luoghi nel XX secolo, ma non è più né ufficiale né sistematica. Purtroppo, dobbiamo segnalare il caso contrario della Cina (p. 105).

È anche interessante notare che, come risultato di quelle prime dichiarazioni sui diritti umani, si iniziò a esercitarli e ben presto si riuscì ad abolire la schiavitù in Europa, cosicché, con maggiore o minore accordo nell'esecuzione, scomparve la schiavitù, che era una piaga infamante.

Infine, il nostro autore tornerà sull'idea della spiritualizzazione dei diritti umani. Proprio parlando dello Spirito Santo, suggerirà che con il suo aiuto si potrebbe ottenere “la forza sovrana della rifusione” (188).

Subito dopo, afferma che Dio “si rivela nella storia e nell'azione umana” (193), per questo sarebbe importante che noi cristiani mostrassimo un rapporto personale con Dio, in modo da agire contando su di Lui, chiedendogli aiuto, coinvolgendolo nei nostri progetti.

Arriverà persino ad affermare che “le istituzioni prive di spirito sarebbero poco affidabili” (p. 204). Pertanto, i diritti umani finirebbero per essere come “la carta magna dell'autonomia degli uomini” (206). Concluderà affermando che l'uomo o si sacralizza unendosi a Dio o rimarrà disincantato dalla vita (p. 244).

La sacralità della persona. Una nuova genealogia dei diritti umani

Autore: Hans Joas
Editoriale: Sal terrae
Anno: 2025
Numero di pagine: 311
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Dossier

Autorità e obbedienza. Gentilezza e abuso

Autorità e obbedienza sono il rapporto fondamentale di amore di Dio come Creatore con la sua creazione (il modello Cristo-Padre). L'abuso è la perversione di questa autorità, un uso egoistico del potere che rompe la carità e la comunione.

Raúl Sacristán López-7 dicembre 2025-Tempo di lettura: 5 minuti

"Eccomi, Signore, per fare la tua volontà” (Eb 10, 7), con queste parole viene presentata la missione di Cristo, rimandando all'autorità del Padre e all'obbedienza del Figlio. Autorità e obbedienza appaiono qui in modo molto diverso da come le percepiamo oggi alla luce delle denunce per i diversi tipi di abusi, specialmente nella vita consacrata. Come minimo, entrambi i termini suscitano un certo sospetto e diffidenza, tuttavia nessuna di queste reazioni si riscontra in Cristo nei confronti del Padre, “All'inizio non era così” (Mt 19, 8).

L'autorità è la qualità dell'autore, l'autore ha autorità sulla sua opera e ha con essa un rapporto di paternità. L'opera è uscita dalle sue mani, meglio ancora, dal suo cuore. Come dicono le parole del libro della Sapienza: “Ami tutto ciò che hai creato, perché altrimenti non lo avresti creato”.” (Sapienza 11, 24). Proprio come l'artista esprime ciò che ha nel cuore, così anche l'autore divino ha espresso ciò che porta eternamente nel suo Cuore. Dio è “il Padre da cui prende il nome ogni paternità nei cieli e sulla terra” (Efesini 3, 15), è il principio di ogni autorità (cfr. Romani 13, 1), ed è un principio sacro, che in greco si dice “gerarchia”. E questo principio, questa autorità, vuole la nostra santificazione (cfr. 1 Tessalonicesi 4, 3), la nostra salvezza, che conosciamo la verità (cfr. 1 Tessalonicesi 2, 4-5). 

Di fronte a tale disegno d'amore, Cristo ascolta attentamente, ovvero obbedisce per realizzare la salvezza. Autorità, gerarchia, salvezza, verità, obbedienza... Inquadrare adeguatamente questi termini è essenziale per affrontare correttamente il problema degli abusi. 

Solo se li comprendiamo alla luce della verità di Dio e della relazione tra loro, ci renderemo conto della loro bontà e, di conseguenza, della gravità degli abusi.

Nella vita consacrata

La vita consacrata appare fin dall'inizio come un tentativo di vivere una sequela di Cristo più radicale, il che è senza dubbio un bene. 

In questo desiderio di seguire e imitare Cristo, la vita consacrata può essere un luogo dove crescere nella grazia, al servizio di Dio e degli uomini, ma, purtroppo, lo stesso ambito della consacrazione si presta a diventare terreno fertile per situazioni di abuso. Situazioni che, d'altra parte, possono verificarsi in qualsiasi altro rapporto umano in cui vi sia un'autorità (famiglia, scuola, lavoro, politica...), ma che nella vita consacrata sono più pressanti a causa della missione di vivere e mostrare la carità in modo particolare. 

Ogni tipo di abuso è, come dice il termine stesso, un modo di usare qualcosa che si allontana da ciò che dovrebbe essere, per perseguire il proprio interesse e non il bene comune, il bene della comunione. Dio non “usa” la sua creazione, e tanto meno suo Figlio o gli uomini, ma gode della relazione con loro, gode della comunione, di quella relazione in cui tutti crescono nella carità. 

Per questo motivo, ogni abuso è un peccato che deteriora e può distruggere la carità, il rapporto con Dio, e sempre prima di tutto colui che commette l'abuso, anche se non lo pensa. Essendo questa la condizione dell'uomo, dobbiamo riconoscere che il peccato c'è stato, c'è e ci sarà finché gli uomini, ciascuno in particolare, non lotteranno per convertirsi a Gesù Cristo. Dato che il peccato allontana l'uomo da Dio, dobbiamo anche sottolineare che c'è un oscuramento della fede e della speranza insieme alla carità: la vita divina nel credente si oscura.  

Alla ricerca di Dio

È fondamentale tenere conto sia dell'origine divina dell'autorità sia della realtà dell'uomo. Questa prospettiva antropologica che considera l'essere umano come creato, decaduto e redento è la chiave per comprendere la sua azione e anche per agire in modo adeguato in situazioni di abuso.

Per poter prevenire, nella misura del possibile, qualsiasi tipo di abuso, in particolare in ambito religioso, è necessario ripensare la situazione dal punto di vista del rapporto con Dio. Una persona che abusa di un'altra sta cercando se stessa, quindi è una persona che si trova in una grande debolezza e mancanza, anche se esternamente non sembra. È qualcuno che non sa, né si sente, amato da Dio e, per questo, cerca altri amori. Queste situazioni non sono facili da discernere, perché a volte si può arrivare a situazioni di abuso fingendo di cercare il servizio a Dio, come sarebbe successo a santa Marta se non fosse stata avvertita dal Signore. Si tratta di preoccupazioni non sante, ma mondane e persino peccaminose. Sono casi di manipolazione psicologica comuni ad altri ambiti, che hanno l'aggravante di verificarsi in un ambiente religioso.

Riconoscere gli abusi

D'altra parte, ci sono altre persone che, di fronte a queste debolezze personali, reagiscono cercando sicurezza e fermezza negli altri, per cui la convergenza di un tipo e un altro di persone, dominanti e dipendenti, facilita il verificarsi di abusi. A tutto ciò si aggiunge la difficoltà umana, in tutti gli ambiti, di riconoscere i propri errori, le proprie debolezze e i propri peccati. Riconoscere un abuso è difficile sia per l'abusante che per l'abusato, più di quanto si possa inizialmente pensare. Con questo non si vuole dire che gli abusati siano solo e sempre persone deboli: una persona forte può essere oggetto di abusi, ma sarà più facile per lei individuarli o trovare il modo di difendersi, cercare sostegno, denunciare e uscirne; anche se ci sono situazioni di abuso che possono finire per distruggere questa forza iniziale.

In momenti di confusione culturale come quelli che stiamo vivendo, è normale che si verifichino processi in cui alcune persone, forse con buone intenzioni, finiscono per fare del male. È importante distinguere tra leadership e autorità. Ci sono persone che hanno un carattere forte, capaci di attrarre gli altri e di condurli verso un obiettivo. Ma questa leadership non è identificabile con l'autorità, nel senso che abbiamo descritto prima. La nostra società, a causa delle dolorose esperienze con l'autorità, è arrivata a rifiutarla e ha estrapolato questa situazione dal umano al divino, finendo per rifiutare Dio. La cosa peggiore è che questa diffidenza mondana verso l'autorità si è insinuata anche nella Chiesa, e così come nel mondo si cercano leader, anche nella Chiesa si può cadere nella tentazione di promuovere la leadership piuttosto che l'autorità. Capire cosa sono le due cose e le loro differenze è anche oggi un compito urgente.

La difficoltà di scoprire e fermare questi processi, come dimostrano i casi che conosciamo, è molto maggiore di quanto pensiamo inizialmente. Il male si nasconde e si difende. Così, il desiderio di unità può finire nell'uniformità, la discrezione nel segreto, l'allontanamento nell'isolamento... Per questo sarebbe importante promuovere uno studio più dettagliato ed esaustivo dell'azione umana, per poter comprendere meglio come si configura l'intenzione, come si muove la volontà, quando l'intenzione devia, qual è il ruolo dell'affettività in questo processo, ecc. 

La complessa situazione attuale richiede un ripensamento teologico del problema, un'analisi più dettagliata della situazione culturale, anche intraecclesiale, uno studio più approfondito dell'azione umana e il ricorso a mezzi spirituali e psicologici per prevenire, fermare e sanare gli abusi. 

L'autoreRaúl Sacristán López

professore dell'Università di San Dámaso

Vaticano

Il Papa ai laici: “Aspettare significa partecipare ai problemi del mondo”

Davanti a oltre trentamila persone che hanno partecipato all'udienza giubilare, Papa Leone XIV si è rivolto oggi in modo particolare ai “fedeli laici”. E ha lanciato un messaggio dell'Avvento: “L'attesa non è passiva. Attendere significa partecipare ai problemi e alle bellezze del mondo”.

Francisco Otamendi-6 dicembre 2025-Tempo di lettura: 3 minuti

Nella festa di San Nicola di Bari, “vescovo noto per la sua sensibilità verso i bisognosi”, ha detto il Papa, il nervo del suo breve catechesi di questa mattina in Piazza San Pietro è stato il tempo liturgico del Avvento. Ma “un'attesa che non è passiva. Aspettare significa partecipare ai problemi e alle bellezze del mondo”.

Dio ci coinvolge nella sua storia, nei suoi sogni. “Aspettare, quindi, è partecipare. Il motto del Giubileo, ‘Pellegrini di speranza’, non è uno slogan che scomparirà tra un mese”, ha detto il Santo Padre. “È un programma di vita: ‘pellegrini di speranza’ significa persone che camminano e aspettano, ma non con le mani in tasca, bensì partecipando”.

“Il Concilio Vaticano II ci ha insegnato a leggere i segni dei tempi: ci dice che nessuno può farlo da solo, ma che insieme, nella Chiesa e con molti fratelli e sorelle, si leggono i segni dei tempi”.

Dio non è fuori dal mondo, fuori da questa vita: “Abbiamo imparato dalla prima venuta di Gesù, Dio con noi, a cercarlo tra le realtà della vita. Cercarlo con intelligenza, cuore e mani rimboccate!”, ha esortato.

Vaticano II: missione per i fedeli laici, in modo particolare

E il Concilio ha affermato che “questa missione spetta in modo particolare ai fedeli laici, uomini e donne, perché il Dio incarnato ci viene incontro nelle situazioni di ogni giorno». 

Nei problemi del mondo, “Gesù ci aspetta e ci coinvolge, ci chiede di lavorare con Lui. Ecco perché aspettare è partecipare!”, ha ribadito alle decine di migliaia di pellegrini e fedeli in Piazza San Pietro.

Esempio del giovane politico Alberto Marvelli

Papa Leone ha dato l'esempio di "Alberto Marvelli, un giovane italiano vissuto nella prima metà del secolo scorso. Cresciuto in una famiglia cristiana, formato nell'Azione Cattolica, si laureò in ingegneria e entrò nella vita sociale durante la Seconda Guerra Mondiale, che egli condannava fermamente.

A Rimini e dintorni “si impegnò con tutte le sue forze per soccorrere i feriti, i malati e gli sfollati”. Molti lo ammiravano per la sua dedizione disinteressata e, dopo la guerra, fu eletto consigliere comunale e incaricato della commissione per l'edilizia abitativa e la ricostruzione. 

“Entra così nella vita politica attiva, ma proprio mentre si reca in bicicletta a un comizio viene investito da un camion militare. Aveva 28 anni”. 

“Perdere un po” di sicurezza e tranquillità per scegliere il bene”

La lezione di Marvelli che il Papa trae è questa: “Alberto ci mostra che aspettare è partecipare, che servire il Regno di Dio dà gioia anche in mezzo a grandi rischi. Il mondo diventa migliore se perdiamo un po” di sicurezza e tranquillità per scegliere il bene. Questo è partecipare».

Chiediamoci, ha esortato il Pontefice: “Sto partecipando a qualche buona iniziativa che impegna i miei talenti? Ho la prospettiva e lo slancio del Regno di Dio quando presto qualche servizio? Oppure lo faccio brontolando, lamentandomi che tutto va male? Il sorriso sulle labbra è il segno della grazia in noi”.

“Nessuno può salvare il mondo da solo: insieme è meglio”

Infine, il Papa ha ribadito: “Aspettare è partecipare: questo è un dono che Dio ci fa. Nessuno salva il mondo da solo. E nemmeno Dio vuole salvarlo da solo: potrebbe farlo, ma non vuole, perché insieme è meglio. Partecipare ci fa esprimere e rende più nostro ciò che alla fine contempleremo per sempre, quando Gesù tornerà definitivamente”.”

Preghiera alla nostra Madre Immacolata

Nel suo saluto ai pellegrini di lingua spagnola, in vista della festa dell'Immacolata dell“8 dicembre, Papa Leone ha esortato: ”Chiediamo alla nostra Madre Immacolata di insegnarci a partecipare alla costruzione della Città di Dio, offrendo i nostri doni con gioia e gratuità. Che il Signore vi benedica. Grazie mille».

Ai pellegrini di lingua inglese e a tutti i fedeli presenti, il Papa ha detto: “All'inizio di questo tempo di Avvento, prepariamo i nostri cuori non solo a riconoscere i modi in cui Dio viene incontro a noi, ma anche i modi in cui ci invita a partecipare alla sua vita. Dio vi benedica tutti!».

L'autoreFrancisco Otamendi

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